Il 19 aprile 1937 in Italia e nelle colonie africane (Somalia, Eritrea, Etiopia e Libia) entrava in vigore il Regio Decreto legislativo numero 880, poi convertito in legge il 30 dicembre 1937. Si tratta della prima legge “di tutela della razza” promulgata dal regime fascista, a cui ne seguiranno altre che porteranno alle Leggi razziali del 1938.

Il decreto, denominato “Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale tra cittadini e sudditi”, vietava e perseguiva penalmente i matrimoni misti e il madamato, la pratica cioè di concubinaggio tra italiani e donne africane, fino a quel momento consentito e legale.

Il Regio Decreto, all’art. 1, stabiliva la pena della reclusione da uno a cinque anni per

il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi o concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana.

Tale decreto era stato anticipato da un articolo redatto dal ministro coloniale Alessandro Lessona, intitolato “Politica di razza” e pubblicato sul quotidiano “La Stampa” il 9 gennaio 1937, di cui proponiamo un estratto:

L’accoppiamento con creature inferiori non va considerato solo per la anormalità del fatto fisiologico e neanche soltanto per le deleterie conseguenze che sono state segnalate, ma come scivolamento verso una promiscuità sociale, conseguenza inevitabile della promiscuità familiare nella quale si annegherebbero le nostre migliori qualità di stirpe dominatrice. Per dominare gli altri occorre imparare a dominare se stessi. Questo devono ricordare e devono volere gli italiani tutti, dai più umili ai più alti. Roma fu dominatrice e moderatrice fra le stirpi più diverse elevandole a sé nella sua civiltà imperiale. Quando si abbassò per mescolarsi ad esse, cominciò il suo tramonto. L’avvenire prossimo e immancabile sarà per una rigogliosa colonizzazione familiare, quale è consentita e garantita, con privilegio sopra tutti gli altri popoli, dalla fortunata esuberanza demografica nazionale, dalle secolari tradizioni di sanità, di compattezza e di fecondità della famiglia italiana, dalle favorevoli condizioni ambientali che attendono i nuclei di domani. Questo avvenire non sarà compromesso.

Parole vergognose, definite da Piero Calamandrei, “la più grave lacerazione dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico e dello Stato di diritto”.

Il decreto rispondeva alle intenzioni del regime fascista di preservare la “purezza della razza italiana”, che veniva considerata superiore, nel tentativo di “non inquinarla” con commistioni con le popolazioni delle colonie africane, considerate non di pari livello. Si consolidano così le infauste premesse ideologiche che porteranno poi alla promulgazione delle Leggi razziali nel nostro Paese e ai vergognosi fatti preludio della pulizia etnica di cui saranno oggetti gli ebrei nella Seconda Guerra Mondiale.

Con questa prima legge di tutela della razza, l’intento del regime era però quello di arginare la procreazione, sempre in nome della difesa di quella razza “superiore”, non tanto quello di vietare le unioni con le donne africane, purché, appunto, fossero puramente sessuali. Ciò che non era consentito erano le unioni caratterizzate da “affettività” – dunque riconducibili a unioni familiari – mentre la sessualità predatoria fu purtroppo molto diffusa.

Il decreto non colpiva infatti le relazioni occasionali, tanto che lo Stato aveva regolamentato le case di tolleranza a questo scopo, relazioni che in molti casi erano veri e propri stupri legalizzati nei confronti di donne e bambine africane.

Questo, infatti, specificava la Corte d’Appello di Addis Abeba il 3 gennaio 1939:

Si verifica madamismo se un nazionale per circa cinquanta giorni tiene in casa propria un’indigena, mangiando e dormendo con lei, e trattandola non già come una domestica, ma come compagna, sia pure provvisoria, di vita. I congressi carnali perdono perciò il carattere di incontro a mero sfogo fisiologico e assumono quello di relazione di indole coniugale.

Ne deriva che “i congressi carnali, a mero sfogo fisiologico”, erano dunque consentiti. Ciò che non lo era, sempre in nome del mantenimento della “purezza della razza”, era un rapporto stabile e di natura affettiva tra un uomo bianco e una donna nera. Nel testo non venivano poi fatti riferimenti alcuni all’opposto, ossia donne bianche e uomini neri, poiché concetti neanche lontanamente immaginabili e dunque presi in considerazione.

Sempre la Corte d’Appello di Addis Abeba, nel marzo 1939, definisce meglio ciò che veniva consentito agli uomini bianchi, con l’utilizzo di termini e concetti aberranti, che identificano la donna africana al pari di una cosa di cui servirsi e disfarsi, “utile” all’italiano per il mero uso fisiologico del sesso:

Non si verifica madamismo nel caso di un nazionale che, assunta come domestica una donna indigena, la tenga in casa con un centinaio di lire mensili per salario, e se ne serva sessualmente, giacendo con lei tutte le volte che ne senta il bisogno, raccomandandole di non concedere altrui favori, ad evitare contagi lei, contaminazioni lui, ma dopo quaranta giorni circa, sente di sbandare da quelli che sono i doveri razziali di ogni buon italiano e si disfa della donna. Non vi fu comunanza di letto, non di mensa, sebbene prestazioni sessuali continuate ed esclusive, ma non per un periodo di tempo che autorizzi si dica formata una costanza e duraturità di rapporti tale da tramutare l’uso fisiologico del sesso in relazione coniugale.

Un incartamento della Corte d’Appello di Addis Abeba del 31 gennaio 1939 così si esprime in merito all’italiano colpevole di madamato:

Nel caso di un nazionale quale confessi di aver preso con sé un’indigena, di averla portata con sé nei vari trasferimenti, di volerle bene, di averla fatta sempre a mangiare e dormire con sé, di avere consumato con essa tutti i suoi risparmi, di avere fatto regali ad essa e alla di lei madre, di averle fatto cure alle ovaie affinché potesse avere un figlio, di avere preso un’indigena al suo servizio, di avere preparato una lettera a S.M. il Re Imperatore per ottenere l’autorizzazione a sposare l’indigena o almeno a convivere con lei, si verifica un fenomeno quanto mai macroscopico di insabbiamento, perché qui non è il bianco che ambisce sessualmente la venere nera e la tiene a parte per tranquillità di contatti agevoli e sani, ma è l’animo dell’italiano che si è turbato ond’é tutto dedito alla fanciulla nera sì da elevarla al rango di compagna di vita e partecipe ed ogni atteggiamento anche non sessuale della propria vita. È pertanto opportuno comminare la pena, sebbene sia un incensurato, in misura che non renda possibile la condanna condizionale perché è tale e tanta l’ubriacatura del colpevole che tornerebbe a convivere con l’indigena ove lo si scarcerasse. In concreto va inflitto un anno e un mese di reclusione, bastevoli a snebbiare il cervello dell’italiano e a disperdere la femmina in cento altri contatti che la diminuiscano di pregio per il nazionale e la vincolino a nuovi interessi e forse a nuovi interessati affetti.

Come accennato, il Regio Decreto rappresenta il primo vergognoso atto normativo di natura discriminatoria compiuto dal regime fascista a cui seguiranno altri infausti provvedimenti legislativi e amministrativi tra il 1938 e il 1945, che faranno parte del corpus delle Leggi razziali contro gli ebrei, aprendo le porte alle successive atrocità della storia.

A seguito del decreto, in quello stesso anno, vennero promulgati anche altre norme razziste dai governatori delle colonie: nel giugno 1937 il governatore d’Eritrea, Vincenzo De Feo, vietava la coabitazione tra italiani e autoctoni negli stessi quartieri, prevedendo successivamente anche delle pene per chi osava muoversi “mediante trasporto promiscuo tra italiani e autoctoni”.  Il governatore della Somalia, Ruggero Santini, impedì invece che gli esercizi commerciali degli autoctoni fossero frequentati da italiani. Norme che saranno poi adottate anche negli anni successivi per colpire gli ebrei.

Il colonialismo italiano e l’origine del razzismo in Italia

È durante il fascismo che l’Impero italiano raggiunge la sua massima espansione. In particolare, avviene con l’annessione dell’Etiopia, nel maggio 1936, quando l’esercito italiano sconfigge le forze etiopi guidate dal negus Hailé Selassié, utilizzando gas asfissianti e bombardando interi villaggi, oltre che praticando spostamenti forzati dei civili etiopi.

È proprio con la campagna di Etiopia che la superiorità della razza italiana diventa una teorizzazione effettiva portando a quell’insieme di provvedimenti legislativi e norme di natura discriminatoria da cui scaturiranno le teorie etno-razziali estese anche alla popolazione ebraica presente in Italia.

Un documento centrale in questo senso in vista della promulgazione delle future Leggi razziali, fu il Manifesto degli scienziati razzisti, noto anche come Manifesto della Razza, che venne pubblicato il 14 luglio 1938, originariamente in forma anonima, su Il Giornale d’Italia con il titolo Il Fascismo e i problemi della razza, poi ripubblicato, questa volta firmato da 10 scienziati italiani, il 5 agosto 1938 sul numero uno della rivista La difesa della razza.

Era il subdolo tentativo di creare un fondamento scientifico all’ideologia razzista, legittimando la politica della razza e la superiorità della razza bianca, che poi si identificherà nella definizione “ariana”,  che porteranno alle atrocità del secondo conflitto mondiale e quelle che sono ricordate come una delle pagine più tragiche e vergognose della nostra Storia.

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