Il 29 dicembre 2020 veniva ritrovato il cadavere di Agitu Ideo Gudeta, uccisa a martellate nella casa di Frassilongo, in valle dei Mocheni, dove aveva fondato l’azienda “La capra felice”.

A massacrare l’imprenditrice e pastora di origini etiopi il ghanese Suleiman Adams, che lavorava proprio per Gudeta; oggi l’uomo, reo confesso, è stato condannato a vent’anni di reclusione per omicidio volontario e violenza sessuale, con rito abbreviato; una pena che, seppur sia andata oltre la richiesta della Procura – 19 anni e 4 mesi – a molti è parsa comunque irrisoria rispetto alla violenza agita nei confronti della donna, soprattutto perché, come è noto, la possibilità di richiedere il rito abbreviato diminuisce la pena di un terzo.

L’intero processo si è svolto su un doppio filo conduttore: per i legali della famiglia di Gudeta si è da sempre trattato di un chiaro caso di femminicidio, mentre la difesa di Adams aveva tirato in ballo due consulenze diverse per mettere in luce presunte contraddizioni rispetto all’orario della morte della donna, un dettaglio che in realtà avrebbe cambiato solo il tipo di reato legato alla violenza sessuale: Se Gudeta fosse stata uccisa prima di essere violentata, infatti, questo sarebbe passato da violenza sessuale a vilipendio di cadavere.

Il giudice ha però mantenuto la linea della violenza, condannando per questo l’uomo a 4 anni e 4 mesi, cui si aggiunge la condanna per omicidio volontario.

Le sorelle e il fratello di Agitu Ideo Gudeta, che vivono in Canada e negli Stati Uniti, non erano presenti in aula, ma si sono costituiti tutti parte civile, rappresentati dagli avvocati Andrea de Bertolini, Giovanni Guarini ed Elena Biaggioni che hanno chiesto un risarcimento danni di circa 400 mila euro per ciascuno, poi ridotti a 50 mila dal Gip Enrico Borrelli.

La morte di Agitu Ideo Gudeta scosse molto non solo la zona della provincia trentina in cui il delitto ha avuto luogo, ma anche l’opinione pubblica internazionale: Gudeta, infatti, era una promotrice culturale e un fortissimo esempio di integrazione; era arrivata in Trentino dall’Etiopia nel 2010 con lo status di rifugiata politica, visto che nel suo Paese si era battuta contro il land grabbing, ovvero l’espropriazione forzata, da parte delle multinazionali delle proprietà degli agricoltori e allevatori autoctoni, diventando una perseguitata, e nel capoluogo trentino si era laureata in Sociologia, sviluppando il proprio interesse per le capre, seguendo un progetto con una tribù dei Boran nel suo Paese natale; nella Valle dei Mocheni aveva invece scelto di investire nell’allevamento di capre autoctone a rischio estinzione, accogliendo anche diversi richiedenti asilo.

Per il suo impegno per la promozione del territorio e la preservazione delle specie, oltre che per l’inclusività dimostrata nel suo lavoro, pochi mesi prima di morire aveva ricevuto la Bandiera verde di Legambiente, per la “determinazione e passione nel portare avanti un importante esempio di difesa del territorio, di imprenditoria sostenibile e di integrazione”.

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