Se qualcuno, a più riprese, tenta di normalizzare il fatto che fino al 1981 il Codice Rocco – datato 1930, in piena epoca fascista – prevedesse il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, minimizzando il tutto con frasi come “Si parla di quarant’anni fa” come se si facesse riferimento al Mesozoico, siamo curiosi e curiose di sapere quali saranno invece le argomentazioni di fronte a questo articolo, tuttora esistente, del Codice Civile (anno 1942), il numero 89, per la precisione.

Non può contrarre matrimonio la donna, se non dopo trecento giorni dallo scioglimento o dall’annullamento del matrimonio precedente, eccettuato il caso in cui il matrimonio è stato dichiarato nullo ai sensi dell’art. 123.
Il Re o le autorità a ciò delegate possono accordare dispensa da questo divieto.
Il divieto cessa dal giorno in cui la donna ha partorito.

Questo il contenuto dell’articolo: in sostanza, la donna non può sposarsi nuovamente se non dopo trecento giorni dallo scioglimento, dall’annullamento delle nozze o dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio, con alcune eccezioni, come si legge in questo articolo, ovvero se:

  • il divorzio è stato pronunciato a seguito di separazione giudiziale o separazione consensuale, oppure a seguito di separazione di fatto iniziata almeno 2 anni prima del 18 dicembre 1970.
  • il matrimonio è stato dichiarato nullo per impotenza, anche soltanto a generare, di uno dei coniugi.

Oltre a questi casi si possono contrarre nuove nozze se

  • sia inequivocabilmente escluso lo stato di gravidanza.
  • risulti da sentenza passata in giudicato che il marito non ha convissuto con la moglie nei trecento giorni precedenti lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

In ogni caso, si legge, “il divieto cessa dal giorno in cui l’eventuale gravidanza sia terminata”. La ragione per cui alle donne era (ma, di fatto, è ancora) imposto il divieto temporaneo di nuove nozze risiede proprio in questo, nel dissipare ogni dubbio sulla paternità della prole. Evidentemente i legislatori dell’epoca, forse anche in virtù della condizione sociale femminile, erano assolutamente convinti della fedeltà coniugale delle donne, se l’essere unite in matrimonio a un uomo era per loro ragione più che sufficiente per escludere dubbi sulla paternità dei figli.

Comunque, la cosa interessante – in negativo – è rilevare ancora una volta l’evidente disparità di trattamento fra uomo e donna che, se poteva essere “giustificabile”, se contestualizzata, negli anni ’40, ovviamente oggi non lo è più. La discriminante, per le donne, è ancora una volta il fatto di essere madri, e come tali essere considerate in una logica di assoluta devozione alla costituita famiglia mentre, di contro, ci sono le ragioni di “onore” e la necessità di evitare all’uomo l’onta di non avere la certezza della paternità della propria prole.

A farlo notare anche una petizione lanciata su Change.Org, che contesta proprio questo vincolo, quello fra maternità e obbligo coniugale, in un’ottica, spesso molto ipocrita, in cui la famiglia è il sacrario indissolubile al quale la donna è eternamente legata, e l’uomo evidentemente no, visto che questi può contrarre nuovo matrimonio quando e come meglio crede, senza limite temporale alcuno.

Ancora una volta la libertà della donna viene oscurata dal ruolo di madre che la società da sempre le impone – si legge nel testo della petizione – Pretendiamo a gran voce che questa legge sessista, discriminatoria e desueta venga abrogata. L’avere un utero atto a procreare non può essere un impedimento al raggiungimento di un obiettivo.

Esistono ad oggi test di gravidanza e di paternità attendibili, atti a scongiurare la peggiore delle ipotesi.

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