Troppo spesso dobbiamo parlare del diritto all’aborto come di un diritto non scontato, anzi perennemente in discussione e sottoposto alle censure e alle velleità abolizioniste soprattutto del mondo conservatore e religioso.

Dopo la scelta del tutto no-choice della Polonia, le leggi iper restrittive approvate in alcuni Stati americani e i rigurgiti antiabortisti che puntualmente interessano anche il nostro Paese, particolare preoccupazione desta anche la situazione del Brasile, dove l’interruzione volontaria di gravidanza è concessa solo in casi eccezionali – stupro, rischio di vita per la madre o anencefalia (mancato sviluppo del cranio o del cervello del feto) – e anche in queste eventualità è comunque preda di fortissime resistenze.

Nel Paese la legge in vigore è ancora quella del 1940, e secondo i dati del DataSus, la banca dati del Sistema unico per la sanità brasiliana (Sus), dal gennaio a giugno del 2020 gli aborti autorizzati per legge sono stati 1.024, su una popolazione di oltre 200 milioni di abitanti. Come ormai dovrebbe essere estremamente chiaro, però, la mancanza di una legge adeguata non impedisce alle donne di abortire, ma le lascia semplicemente nella condizione di dover scegliere gli aborti clandestini, con tutti i rischi a essi connessi.

La situazione si è particolarmente riaccesa negli scorsi anni dopo che un gruppo di estremisti religiosi ha protestato per impedire l’aborto di una bambina di dieci anni, rimasta incinta dopo essere stata stuprata dallo zio. Uno dei casi in cui l’aborto è consentito è appunto lo stupro, come abbiamo spiegato, eppure gli estremisti hanno letteralmente bloccato gli ingressi dell’ospedale di Recife dove la piccola era stata accompagnata dall’attivista Paula Viana, dopo che la struttura di São Mateus, la sua città natale, le aveva rifiutato l’intervento.

Parliamo di un caso del 2020, ma che certamente fa capire quanto la reticenza e l’ostilità nei confronti del diritto all’aborto siano quantomai accesi, in Brasile, anche da parte di chi, come i medici, dovrebbero invece garantirlo (quantomeno nei casi in cui è regolato dalla legge).

La bambina era stata portata all’ospedale della sua città, nello stato brasiliano di Espírito Santo, il 7 agosto, dopo aver accusato forti dolori alla pancia, e lì i dottori hanno scoperto la gravidanza, causata dalla violenza sessuale subita dallo zio; lì la piccola ha anche rivelato che gli abusi andavano avanti da quando aveva appena 6 anni. Così, dopo aver ricevuto l’autorizzazione ad abortire – che nel Paese scatta in automatico dopo la denuncia di stupro alla polizia – la bimba è stata accompagnata in aereo da Viana, in un viaggio di quasi 1000 km dovuto al rifiuto del suo ospedale di procedere con l’interruzione di gravidanza, ma è potuta entrare nella struttura solo nascondendosi in un bagaglio portato dalla stessa attivista e passando da un ingresso secondario.

Ma all’ospedale di Recife, oltre agli estremisti no-choice, Viana e la bambina hanno trovato anche più di 150 attiviste dei gruppi femministi, che hanno manifestato per il diritto ad abortire, così come nelle strade di varie città del Brasile le donne sono scese per protestare contro una legge vetusta e troppo restrittiva, e contro i continui rifiuti del presidente Bolsonaro di accettare gli emendamenti proposti dai gruppi femministi.

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