C’è una neg*a di mer*a che pensa di avere dei diritti, che oltretutto è pure donna, quindi già donna e diritti non dovrebbero stare nella stessa frase“.

Non siamo nell’epoca dello schiavismo né in quella dell’apartheid, la frase che avete appena letto è stata pronunciata, assieme ad altre, da un ragazzo di diciannove anni, Marco Rossi, calciatore del Monregale, squadra cuneense che milita in seconda categoria.

Tutto parte da un banale bisticcio per dei danni a un’auto: quella della donna che ha poi denunciato il giovane calciatore, il quale non ha trovato di meglio che sfogare la propria rabbia sui social, con un video infarcito delle peggiori atrocità razziste e misogine.

‘Sto orangotango del ca**o mi ha denunciato per falsa testimonianza. Che però, forse è vero, un po’ di falso l’ho dichiarato perché ero fuso e ubriaco, ci sta. Però, per principio, non mi devi rompere il caz*o anche perché ‘you are black, nera di mer*a!’ In poche parole io adesso dovrei pagare la macchina a una, solo perché sa fare il cous cous: ma baciami il ca*zo, putt*na! Tro*a! Ho preso la macchina di mia madre, ho preso l’autovelox, non ho pagato una lira e devo pagare la macchina a te, se sempre si può chiamare macchina quella mer*a di triciclo che c’hai. Tro*a, lavami i pavimenti.

Il video è stato pubblicato anche sulla pagina Twitter di Abolizione del suffragio universale, e ha, ovviamente, scatenato l’indignazione di moltissimi utenti dei social, letteralmente rimasti interdetti di fronte a un comportamento che definire inaccettabile è, probabilmente, un atto di generosità. E non solo per il fragile momento in cui ci troviamo, proprio alla luce dei moti scatenati dagli afroamericani e delle statue abbattute, in maniera più o meno condivisibile, in nome di un ideale abbattimento di ogni forma di discriminazione; lo sarebbe stato a prescindere, per il suo essere intriso di cliché sia razzisti che sessisti beatamente sbattuti sulla pubblica piazza dei social, senza remore.

È evidente non solo la gravità di appellare una persona come “neg*a” o “orangotango”, perpetuando degli stereotipi odiosi di cui faticosamente cerchiamo di liberarci, ma anche il fatto di ritenere plausibile sostenere che “donna e diritti non possano stare nella stessa frase”, che è un po’ come fare un salto all’indietro nel tempo di almeno cinquant’anni, a dispetto di un’età che dovrebbe (sarebbe auspicabile) indicare invece rinnovamento e idee finalmente diverse, in senso buono.

La società del Monregale calcio, dopo essersi inizialmente limitata a disabilitare i commenti dalle proprie pagine Instagram e Facebook, ha fatto sapere nelle scorse ore di aver sospeso il giocatore, attraverso un post pubblicato sulla propria pagina social, spiegando anche i motivi del ritardo di tale comunicazione.

Essendo quest’ultimo un suo tesserato – si legge nel post – la Monregale aveva subito condannato tale episodio (pur non avendo alcuna rilevanza con l’attività sportiva, ma essendo contrario ai nostri valori etici) e fatto quel che poteva, cioè sospendere immediatamente il ragazzo da ogni attività sportiva; sospensione che è tuttora in essere, in attesa di conoscere quali siano i limiti sanzionatori possibili (abbiamo chiesto, a questo scopo, un parere ad un esperto di diritto sportivo, di cui siamo tuttora in attesa), dopodiché emetteremo il provvedimento disciplinare definitivo.

Questo è l’unico motivo per cui non avevamo ancora emesso un comunicato ufficiale (ora ci è stato chiesto dai nostri amici e sponsor, per cui lo pubblichiamo volentieri, a scanso di equivoci e per tutelare la loro – prima ancora della nostra – buona immagine).

Il dato di fatto, al di là delle riflessioni sulla giustezza del provvedimento preso dalla società sportiva nei confronti del ragazzo, è che a monte resta un enorme problema culturale, che non è nato ieri e, quindi, difficilmente scomparirà domani, che è quello di sentirsi legittimati a ritenere qualcuno inferiore di noi perché donna, o perché nera. O entrambe le cose, come in questo caso.

È proprio qui che la presa di posizione deve esserci, e netta: nel creare un nuovo tipo di cultura, a partire dai principali luoghi di socializzazione, scuola, casa, ma anche nella politica, dove spesso scelte fondamentali per un rinnovamento sono lasciate a stagnare per anni o risultano blande una volta diventate leggi; basti pensare, in tempi recentissimi, alla legge sull’omobitransfobia, diventata oggi, nel 2020, il Ddl Zan, dopo 24 anni di dibattiti e discussioni sul tema.

Su razzismo e omofobia, ma anche sul discorso sessismo, restiamo uno stato bloccato alla narrazione del maschio bianco dominante in cui la donna gli deve rispetto, “figuriamoci se poi è pure nera”. A quel punto, se già da bianca sarebbe una “putt**a”, diventa degna solo di lavare i pavimenti. E in questo stato di cose cresciamo figli che si sentono legittimati a perpetuare questo genere di discorso, ignari di rendersi attori di una condotta che non può trovare in alcun modo giustificazione nella frustrazione o nel momento di rabbia, nell’indignazione per una denuncia presa, come in questo caso, o nella volontà di fare un po’ gli spacconi sui social usando parole “forti”.

Tutto questo ha un nome, e con quel nome deve essere chiamato: parliamo di razzismo e di misoginia. Cose che vanno ben oltre il semplice “cartellino rosso”.

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