Tiziana Cantone.

Michela Deriu.

Due donne unite da uno destino praticamente identico: morte suicide, dopo la diffusione di un video a contenuto sessualmente esplicito che le vedeva protagoniste. Un filmato di pochi secondi fatto girare per goliardia, per ripicca, per idiozia, sui principali social network e sulle app di messaggistica istantanea.

Che a loro è costato tanto, tantissimo: prima per la vergogna di essere finite alla pubblica gogna, additate senza troppe remore come “puttane” perché, si sa, questo è lo scotto da pagare per essere al massimo donne libere, anche sessualmente; poi per la decisione di togliersi dal mondo per non dover più sopportare di vedere la propria faccia spiattellata davanti a dei perfetti sconosciuti, usata come umiliante divertimento per i meschini e come monito a seguire una condotta “proba” dai benpensanti.

Il revenge porn è una piaga orribile e terribilmente infamante per chi la subisce, perché si rischia di essere marchiati per sempre come “quella/o che è finito nel video mentre faceva….”, ed è senz’altro il lato più oscuro e tremendo di quell’universo multisfaccettato che sono i social e, più in generale, la tecnologia di ultima generazione.

Il problema è che nel nostro Paese, oltre a mancare attualmente una legge per prevenire questo genere di atti – al momento è stata organizzata solo una petizione da Insieme in rete, i Sentinelli e Bossy, che ha raccolto più di 100 mila firme sulla piattaforma Change.org – sembra proprio che le dolorose esperienze del passato non servano a nulla. Tanto che a finire vittima di un atto di revenge porn è anche una deputata.

Giulia Sarti, parlamentare del Movimento 5 Stelle che ha assunto la Presidenza della Commissione Giustizia alla Camera, è finita negli scorsi mesi al centro dello scandalo cosiddetto “Rimborsopoli“,  in cui è stato denunciato il falso dichiarato da lei, con altri parlamentari del M5S, sui rimborsi che il Movimento destinava al fondo del microcredito per le PMI.

Fra espulsioni e cambi di partito la questione è sembrata chiudersi per tutti, non per lei: la Sarti, infatti, ha denunciato un collaboratore per appropriazione indebita (alcuni sostengono per evitare l’epurazione dal Movimento), accusandolo di aver intascato i soldi destinati al fondo del microcredito.

Sembra un dettaglio di poco conto, non lo è: perché proprio da qui partirebbe la storia di revenge porn in cui la deputata si è ritrovata suo malgrado coinvolta. Dopo l’archiviazione da parte della Procura di Rimini, infatti, fu il collaboratore stesso a spiegare che con quei soldi – 4000 euro – aveva pagato chi era in possesso di contenuti hard con protagonista la Sarti, per farli sparire.

I video rubati a cui si fa riferimento risalgono al 2013, dopo il leak della mail personale della Sarti, e oggi sarebbero tornati a circolare, come ha fatto sapere il giornalista Paolo Mieli durante una puntata di Otto e mezzo.

Ora, il problema chiaramente non è capire se quei video siano veri o no, se quella nel filmati sia proprio Giulia Sarti o meno. È assolutamente chiaro che quel materiale, di qualunque cosa esso si tratti, non dovrebbe essere condiviso da nessuno, meno che mai da mezzi di stampa o media di qualunque altro genere.

Lo ha chiesto il Garante della Privacy Antonello Soro, che in un comunicato ha scritto:

Con riferimento a notizie relative alla possibile circolazione di immagini molto personali della deputata M5s Giulia Sarti si richiama l’attenzione dei mezzi di informazione al rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali e del codice deontologico dei giornalisti.

Lo chiede il mondo della politica, anche le oppositrici della Sarti, da Giorgia Meloni ad Anna Ascani, fra le prime a esprimere solidarietà alla collega

Lo chiediamo noi, perché la libertà di stampa – da parte dei media – o di espressione – nel caso di chi il video lo fa circolare sui social, o nel privato – significa tutt’altro rispetto al ledere la dignità di una persona, violarla nella sua sfera intima e darla in pasto all’opinione pubblica per qualche visualizzazione, un paio di like o una manciata di condivisioni.

E tutto questo, è altrettanto chiaro, prescinde dalla vicinanza politica, dal colore, dall’ideologia e anche dalla questione “Rimborsopoli”, per cui, nel caso fosse vero, Giulia Sarti deve trovarsi a essere giudicata da altri e per altre circostanze, non messa alla berlina per qualcosa che esula dal suo ruolo politico.

Il diritto della Sarti a non vedere un video hard di cui sarebbe protagonista girovagare su Internet o fra gli smartphone di tutta Italia prescinde anche dal sapere se è effettivamente lei la protagonista di quel filmato, perché si fa presto a essere marchiati a fuoco per sempre come “quella del video porno”.

Vallo a spiegare che poi, alla fine, non sarebbe neppure nulla di sconvolgente, ma al limite solo la dimostrazione di un’emancipazione sessuale che molti non riescono ad accettare, alcuni non comprendono, tanti sicuramente invidiano. Il sesso, specie se associato alle donne, finisce sempre con l’essere considerato peccato mortale, figuriamoci sbatterlo in faccia ai perbenisti inossidabili.

Chi dovesse ritrovarsi a vedere quella clip dovrebbe prima di tutto indignarsi, poi denunciare l’accaduto, per non diventare complice, seppur involontario, di un sistema che, fra le tante pene che affliggono le donne, vorrebbe aggiungere loro pure quella di ritrovarsi colpevolizzate per avere una vita sessuale appagante e soddisfacente.

Ecco perché noi stiamo indiscutibilmente dalla parte di Giulia Sarti, e dalla parte di una legge, sul revenge porn, che deve diventare realtà il prima possibile.

 

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