Il modo in cui i giornali stanno raccontando Filippo Turetta è un problema
Filippo Turetta è in carcere da sabato scorso, e la stampa italiana dimostra (ancora una volta) problemi nel linguaggio usato per parlare di femminicidio e femminicidi.
Filippo Turetta è in carcere da sabato scorso, e la stampa italiana dimostra (ancora una volta) problemi nel linguaggio usato per parlare di femminicidio e femminicidi.
Filippo Turetta è in carcere a Montorio, Verona, dal 25 novembre; per un assurdo gioco di coincidenze, il suo rientro in Italia, estradato dalla Germania dov’era fuggito dopo il femminicidio della ex fidanzata, Giulia Cecchettin, è avvenuto nella Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne, segnata quest’anno dalle manifestazioni tenutesi in tutto il Paese, nate proprio dalla rabbia e dall’indignazione seguite al femminicidio di Cecchettin.
Eppure – e non è la prima volta che ci troviamo a doverlo raccontare – emergono i soliti problemi in quella che è la narrazione fatta da una buona parte dei media italiani che, com’è naturale, hanno seguito e stanno seguendo la cronaca di questa ennesima, tragica vicenda. A fronte dell’ennesimo femminicidio – quello di Giulia Cecchettin è stato il 105esimo dall’inizio del 2023, purtroppo quasi immediatamente seguito da altri aberranti casi di cronaca di violenza di genere -, che ha non solo fatto scaturire un’ondata emotiva a livello popolare, ma anche imposto una “corsa urgente ai ripari” a livello istituzionale, vista l’ormai palese sistematicità del problema, il linguaggio usato da una parte della stampa è infatti ancora a metà tra il voyeurismo e la romanticizzazione della figura del femminicida.
Se da un lato infatti c’è un’insistenza morbosa e disturbante sull’elenco degli oggetti rinvenuti accanto al corpo di Giulia Cecchettin, sui dettagli, sui particolari anche più scabrosi del delitto, dall’altro assistiamo, ancora una volta, a una recrudescenza della mistificazione linguistica che sembra indirizzata a empatizzare con l’assassino.
Cui, peraltro, viene lasciato il diritto alla soggettività, nell’uso sistematico del nome e cognome da parte di giornali e tv, cosa che invece viene negata alla vittima, chiamata spesso soltanto con il nome di battesimo, senza quel cognome che, invece, ne stabilisce a chiare lettere l’identità.
Chiamare Giulia Cecchettin solo “Giulia”, infatti, lungi dall’essere il tentativo, tipico del paternalismo benevolo, di portare a empatizzare con la vittima, a farne propria la storia fino a considerarla una persona conosciuta, al pari di una figlia, una sorella, un’amica, è in realtà un modo come un altro per delegittimare una donna della sua autonomia, secondo dei bias reiterati e normalizzati non solo dalla stampa, ma a livello culturale in generale.
Ma questo, per quanto rappresenti un’abitudine raccapricciante soprattutto per il clima di accettazione generale che la circonda, è forse solo l’ultimo dei problemi che si trovano nella comunicazione di alcuni organi di informazione, e che non sono mancati nel caso di Turetta. Questi, ad esempio, sono alcuni titoli di giornale, riportati da The Period Off, sulle prime ore del femminicida di Cecchettin in carcere.
Potrò studiare?
Vuole leggere e prendere ansiolitici
Vuol vedere i genitori
Parla con il cappellano del carcere
Qui ho paura
Ha passato la prima notte in infermeria
Potrebbe aver lasciato lui il libro per bambini accanto al corpo di Giulia
È chiaro come tutte queste informazioni finiscano con il costruire, nella mente del lettore, una sorta di “rapporto di empatia” con il femminicida, di cui viene descritto il lato umano, sofferente, di timore; ed è un tipo di narrazione sbagliata, perché quella che viene offerta a chi fruisce dell’informazione è una prospettiva romanticizzata del femminicida, una sua elevazione a vittima, a sua volta, delle circostanze, della situazione, delle conseguenze delle proprie azioni.
Il che si rifà, in un certo qual modo, alla domanda iniziale che spesso emerge nei casi di femminicidio: “Cosa è scattato nella mente del bravo ragazzo?”, che, come in un circolo vizioso, ci fa tornare alla dietrologia di raptus, delitti passionali e a tutto quel filone narrativo di cui non abbiamo bisogno al fine di costruire un’analisi davvero lucida e razionale dei femminicidi.
Come sottolinea l’attivista Carlotta Vagnoli nel suo post a commento della tematica,
Dai dettagli sul libro per bambini ritrovato di fianco a Cecchettin ai dettagli sulla sua vita emotiva dopo l’arresto, la stampa italiana si sta prodigando in una bizzarra romanticizzazione del femminicida, quasi fosse vittima a sua volta, quasi fossimo in un romanzo ottocentesco.
Il risultato è un diffuso pensiero sul come un così bravo ragazzo abbia potuto fare ciò che ha fatto.
Il risultato è anche un senso di allontanamento dal reale e dai motivi alla base del femminicidio: come può un animo descritto in modo così rassicurante fare ciò che ha fatto?
Le risposte di in una società che colpevolizza le vittime possono essere semplici da individuare: raptus? Avrà fatto lei qualcosa per farlo alterare? Esasperazione?
Niente di tutto questo, ovviamente. Ma la romanticizzazione di Turetta ci allontana ancora un po’ dalla verità che sta alla base di ogni femminicidio, ovvero il possesso.
E allora si chiama in causa il Manifesto di Venezia, il documento, redatto nel 2017 dalla Commissione pari opportunità della Federazione nazionale della stampa italiana, Usigrai e Giulia giornaliste, per il rispetto e la parità di genere nell’informazione e contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini che, in teoria, servirebbe proprio a evitare errori nella narrazione giornalistica della violenza sulle donne, sulla scia della Convenzione di Istanbul, riconoscendo ai media un ruolo chiave nella prevenzione della violenza di genere, in virtù dell’importanza della scelta delle parole da usare e della narrazione che di questo genere di casi si fa. In teoria, perché in pratica la situazione è quella descritta: dopo un femminicidio ciò che resta è solo il punto di vista del femminicida.
Restano i sogni spezzati dell’assassino, la paura di ritorsioni in carcere, la mancanza di mamma e papà, il pentimento o il colloquio con il cappellano; tutti elementi che, dal punto di vista strettamente giornalistico, non sono necessari, ma che, chissà perché, vengono sempre menzionati, e addirittura citati nei titoli, quasi fossero indispensabili, per il lettore, per costruire una propria conoscenza dei fatti.
Senza seguire linee guida del Manifesto di Venezia e senza decoro per chi rimane della famiglia Cecchettin – conclude Vagnoli – la stampa italiana -di cui qui allego solo un paio di esempi- fa soldi e click sul torbido che ci portiamo dentro.
A che prezzo, però?
Giornalista, rockettara, animalista, book addicted, vivo il "qui e ora" come il Wing Chun mi insegna, scrivo da quando ho memoria, amo Barcellona e la Union Jack.
Cosa ne pensi?