10 anni senza Yara Gambirasio
10 anni fa la scomparsa di Yara Gambirasio, poi ritrovata senza vita 3 mesi dopo. Una storia atroce di violenza, che per la giustizia italiana ha un colpevole, e che presto sarà raccontata in un film.
10 anni fa la scomparsa di Yara Gambirasio, poi ritrovata senza vita 3 mesi dopo. Una storia atroce di violenza, che per la giustizia italiana ha un colpevole, e che presto sarà raccontata in un film.
26 novembre 2010. Con la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne appena passata e gli italiani già presi dal conto alla rovescia per il Natale, la notizia della scomparsa di Yara Gambirasio arrivò come un fulmine a ciel sereno.
Tredici anni e mezzo appena, Yara aveva lasciato la casa dove abitava con i genitori e i fratelli, a Brembate Sopra, nel bergamasco, per portare uno stereo nella vicina palestra in via Locatelli, dove faceva i suoi allenamenti di ginnastica ritmica, in vista di una gara che si sarebbe svolta la domenica. Da lì, il nulla.
Yara non torna a casa, e verso le 20 papà Fulvio, preoccupato, chiama i carabinieri:
Buonasera, mi chiamo Fulvio Gambirasio e abito in via Rampinelli a Brembate Sopra. Vorrei denunciare la scomparsa di mia figlia. Si chiama Yara e ha 13 anni.
Purtroppo, conosciamo tutti l’epilogo drammatico di questa storia: la povera Yara venne ritrovata solo tre mesi dopo in un campo, dove era stata abbandonata dal suo assassino e dove era giaciuta per tutto quel tempo, visto che il suo omicidio sembra risalire proprio alla sera della scomparsa. La causa di morte è terribile: Yara, dopo essere stata ripetutamente colpita con una spranga e con un’arma da taglio, è morta per il freddo.
Nonostante i suoi pantacollant fossero abbassati, al momento del ritrovamento, i medici legali hanno da sempre escluso una violenza sessuale; il che, paradossalmente, rende ancor meno spiegabile un omicidio tanto efferato e brutale. Perché accanirsi così su una ragazzina di appena tredici anni, colpendola al corpo, alla testa, per poi lasciarla a morire al gelo?
Dal momento del ritrovamento del corpo, il 26 febbraio, gli inquirenti si sono messi immediatamente a setacciare e scandagliare indizi, prove, reperti, tutto ciò che in qualche modo potesse ricostruire gli ultimi momenti della ragazzina e quello che è successo in quei 700 metri che separano casa Gambirasio dal centro sportivo di via Locatelli, le cui telecamere di sorveglianza, per uno strano scherzo del destino, quella sera non funzionavano.
Yara è stata descritta come una ragazzina coscienziosa, che non si sarebbe mai fidata di un estraneo e di certo avrebbe accettato un passaggio da uno sconosciuto, e questo, se possibile, ha contribuito a rendere ancora più misteriosa la vicenda: l’aggressore l’ha colta di sorpresa? Oppure era un volto noto, un volto che lei considerava “amico”?
Alla fine, a distanza di quattro anni dalla morte di Yara, l’assassino ha un volto e un nome, per le forze dell’ordine: è l’operaio Massimo Bossetti, padre di tre figli, a cui si è risaliti grazie alla genealogia forense, per la prima volta decisiva, in Italia, per la risoluzione di un caso. Bossetti, affermano gli investigatori, sarebbe il figlio illegittimo di Ignoto 1, il cui DNA è stato ritrovato sugli indumenti intimi di Yara Gambirasio. Giuseppe Guerinoni, autista di Gorno, cui il DNA appartiene, è deceduto nel 1999, ma attraverso gli esami, e i pettegolezzi di paese che raccontano di una relazione extraconiugale di Guerinoni, si arriva a Bossetti.
Il 12 ottobre 2018 Bossetti viene definitivamente condannato all’ergastolo, dopo essere stato riconosciuto colpevole in tutti i tre gradi di giudizio, pur continuando a proclamare la sua innocenza; e, in effetti, in tutti questi anni Bossetti non è mai crollato, non ha mai ceduto il passo, non ha mai confessato di essere l’autore di quell’orribile delitto. Anzi, proprio in occasione del decimo anniversario della scomparsa ha ripetuto, dal carcere in cui si trova
Non sono stato io. Yara non ha avuto giustizia.
Com’è possibile, verrebbe da chiedersi, avere da una parte prove che sembrano inoppugnabili e, dall’altra, un colpevole che non ha mai cambiato la propria versione e che è da sempre stato difeso a spada tratta dalla moglie, Marita?
Conosco mio marito, se non mi avesse detto la verità sarebbe crollato subito. Se avessi avuto dubbi sulla sua innocenza lo avrei lasciato, anche per tutelare i miei figli.
Questo è quello che la donna ha detto per tutti questi sei anni, dall’arresto del marito fino alla sentenza definitiva del 2018. Affermazioni che hanno portato qualcuno a dubitare dell’effettiva colpevolezza di Bossetti, costruendo quindi congetture e ipotesi diverse nelle varie trasmissioni televisive, nonostante gli indizi più sostanziosi (oltre al DNA, anche alcune fibre, usate nei tessuti dei sedili delle auto, rinvenute sul corpo di Yara, e le immagini di un furgone simile a quello guidato da Bossetti che si aggirava nei dintorni della palestra la sera della scomparsa).
A distanza di un decennio qualcuno ha dubbi che Bossetti sia davvero il responsabile di quell’omicidio, altri dicono che giustizia è stata fatta. Noi, negli occhi, abbiamo ancora il sorriso di Yara, il suo apparecchio per i denti, il cerchietto fra i capelli e quel volto da tredicenne per sempre.
Sfogliate la gallery per ricostruire la vicenda di Yara.
Venerdì 26 novembre 2010 Yara Gambirasio esce di casa verso le 17 per recarsi al centro sportivo di Brembate di Sopra, e le testimonianze raccontano che rimane allmeno fino alle ore 18:40. La casa di Yara e la palestra distano appena 700 metri, ma della ragazzina si perdono le tracce.
Il suo telefono aggancia, alle 18:44, la cella di Ponte San Pietro via Adamello settore 9, alle 18:49, la cella di Mapello, a tre chilometri da Brembate Di Sopra, e alle 18:55, per l’ultima volta, la cella di Brembate di Sopra in via Ruggeri. Poi più nulla.
Fulvio Gambirasio telefona ai carabinieri per denunciare la scomparsa attorno alle 20. Le ricerche partono immediatamente.
Ricordo le chiamate di quella sera con il padre Fulvio, molto preoccupato, che contattava conoscenti nella speranza che Yara fosse con loro – ha raccontato Giovanni Mura, il carabiniere che per primo si occupò delle indagini, che ora dirige il Nucleo di Treviso – Anche mamma Maura era in pensiero, ma in modo più razionale. Dalla mattina successiva, era un sabato, ipotizzammo che potesse essere successo qualcosa di grave. Questo perché la ragazza era di una buona famiglia e non aveva genitori sbandati, di quelli che magari possono indurre i figli ad andarsene di casa.
[…] Non scorderò mai la forza di quella donna che ci spronava ad andare avanti. Era un grosso stimolo per noi. Personalmente ero stupito, avendo una figlia coetanea di Yara mi chiedevo come faceva a non essere disperata. Un giorno le chiesi dove trovava tutta quella determinazione. Lei mi rispose che non poteva permettersi di mollare perché aveva altri tre figli a casa e anche Yara doveva tornare.
Purtroppo, il corpo senza vita di Yara viene ritrovato tre mesi esatti dopo la scomparsa, il 26 febbraio 2011, in un campo a Chignolo d’Isola, a 10 chilometri circa da Brembate Sopra. La causa della morte è il freddo, e non le numerose ferite scoperte sul corpo della ragazzina, ritrovata con i pantacollant abbassati.
Prima del ritrovamento del corpo di Yara, le indagini si erano concentrate sull’operaio marocchino Mohammed Fikri, che lavorava in un cantiere edile di Mapello, dove i cani molecolari hanno rilevato l’ultima traccia di Yara. L’uomo viene fermato il 5 dicembre 2010 su una nave diretta a Tangeri, ed è messo sotto indagine per un’intercettazione telefonica ambientale in cui, nella sua lingua, avrebbe detto “Allah mi perdoni”. In realtà, venne scoperto che la traduzione fatta era errata, in quanto Fikri in realtà avrebbe detto “Allah mi protegga”.
Sui leggings e sugli slip di Yara viene ritrovato del sangue, da cui i Ris estraggono un profilo genetico maschile, Ignoto 1, nel maggio del 2011.
Viene eseguito uno screening di DNA di tutti i residenti maschi della zona, e si arriva alla discoteca Le Sabbie Mobili di Chignolo, dove un aplotipo Y (quello della linea paterna) corrisponde. Si tratta di Damiano Guerinoni, figlio della signora delle pulizie che aiutava in casa Gambirasio, che tuttavia il 26 novembre 2010 si trovava all’estero. Da lui si risale però al nonno, Giuseppe Guerinoni, autista di Gorno, morto nel 1999.
I figli di Guerinoni però non corrispondono alla traccia trovata; si viene tuttavia a sapere che, in gioventù, l’uomo aveva avuto una relazione clandestina con Ester Arzuffi, da cui sono nati due gemelli: Laura e Massimo Giuseppe Bossetti.
Il 14 giugno 2014 il DNA di Bossetti viene prelevato simulando un controllo con l’etilometro, e per la scientifica non ci sono dubbi. Il 16 giugno Bossetti viene prelevato in cantiere a Seriate e condotto in carcere.
Massimo Giuseppe Bossetti viene condannato all’ergastolo in tutti e tre i gradi di giudizio. A suo carico pesa non solo la prova del DNA, ma anche le immagini di un furgone Iveco Daily passo 3450 modificato, come quello che lui guida, che si aggira nei pressi della palestra la sera della scomparsa, e delle fibre, tipiche dei sedili delle auto e dei furgoni, e particelle metalliche che potrebbero provenire da un cantiere ritrovati sul corpo della piccola.
Nel suo computer gli inquirenti trovano inoltre molto materiale pornografico e ricerche come “ragazze vergini rosse” e “ragazzine con vagina rasata”. La moglie, Marita, che ha sempre difeso Bossetti, ha affermato di essere lei l’autrice di quelle ricerche, e che fosse sempre lei, a volte col marito, a volte da sola, ad accedere a siti porno.
Per la difesa la prova del DNA non è sufficiente, esistendo sia il DNA nucleare che quello mitocondriale, con solo il primo che corrisponde a quello del loro assistito. Ma non basta: Bossetti viene condannato.
Fulvio e Maura, i genitori di Yara, nel 2015 hanno aperto una onlus a nome della figlia, con l’aiuto, fra le altre persone, di suor Carla Lavelli, la preside della scuola media di Yara, che sostiene i ragazzi con difficoltà economiche nella loro crescita in campo sportivo, artistico, musicale.
Arriverà su Netflix nel 2021 il film, prodotto dalla Tao Due di Pietro Valsecchi, ispirato alla storia di Yara. Fra gli interpreti Alessio Boni, nei panni di un comandante dei Carabinieri, e Isabella Ragonese in quelli del pubblico ministero Letizia Ruggeri che ha seguito l’indagine.
Il film sarà diretto da Marco Tullio Giordana.
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