390 femminicidi da inizio anno: le donne turche che non possono camminare da sole
Ceren è solo l'ultima vittima di un'ondata terribile di violenza contro le donne in Turchia. È la vittima di femminicidio numero 390 nel solo 2019.
Ceren è solo l'ultima vittima di un'ondata terribile di violenza contro le donne in Turchia. È la vittima di femminicidio numero 390 nel solo 2019.
Ceren è stata uccisa sul portone di casa a Ordu, città turca sul Mar Nero. Aveva vent’anni appena, ed era una ballerina, infatti rientrava da una lezione di danza quando è stata accoltellata, dopo aver suonato il campanello. È stata la sorella a trovarla in una pozza di sangue, preoccupata perché, dopo il trillo del campanello, Ceren non era salita.
Ceren, morta dopo il ricovero in ospedale, è l’ennesima vittima di una lunghissima scia di sangue che, nel Paese per metà europeo e per metà asiatico, sta massacrando le donne. Perché il femminicidio non è un problema “solo” italiano, tanto che in Turchia organizzazioni come We Will Stop Femicide o Kadin Cinayeti durduracagiz platform parlano di 390 vittime solo nel 2019. Più di una donna al giorno muore nelle città turche, per mano di sconosciuti o – molte volte – di mariti e compagni.
Sono numeri impressionanti, che stridono terribilmente con le campagne sullo stile del #MeToo che dal 2018 stanno riportando consapevolezza e informazione sul tema delle molestie e delle violenze sessuali di genere, e che danno un’idea forte e quantomai veritiera della gravità di una situazione che, peraltro, non accenna a calmarsi.
Ceren è la vittima numero 390 di una vera e propria carneficina che, dopo il colpo di Stato del 2016, non ha fatto che inasprirsi, così come in generale si è indurita tutta la politica al femminile del presidente Erdogan. Secondo le associazioni di difesa dei diritti delle donne in Turchia, infatti, dal 2013 al 2017 il numero delle donne uccise da un parente o un marito è cresciuto del 75%. Sempre secondo We Will Stop Feminicide nel 2018 ci sono stati 440 casi di femminicidio, contro i 210 del 2012. Il numero è più che raddoppiato, complice anche un sistema patriarcale che è tornato prepotentemente ad affermarsi nel Paese e che sta gettando le basi, pericolosissime, per rimettere in discussione anche diritti acquisiti come l’aborto o il divorzio.
Sul tema dell’interruzione di gravidanza, in realtà, stiamo assistendo a un rigurgito conservatore e bigotto anche in molti altri Paesi, a partire dagli USA, che vantano una incredibile contraddizione fra mantenimento della pena di morte e volontà di rendere illegale l’IVG, testimoniata dalle leggi choc di Louisiana, Georgia, Alabama, cui si aggiunge la proposta assurda dell’Ohio.
Ma in Turchia, come detto, la situazione è senz’altro grave perché allargata ad altri fronti: se già nel 2012 il governo ha cercato di vietare l’aborto, fallendo nell’intento solo per la resistenza delle donne ma limitando notevolmente il numero di ospedali che lo praticano, rendendolo in sostanza impossibile, in generale le politiche turche cercano più di proteggere la famiglia rispetto alla donna, cercando di evitare i divorzi attraverso delle sanzioni, ad esempio, piuttosto che concentrarsi sulla prevenzione dei femminicidi.
Se non fosse per il lavoro delle già sopracitate organizzazioni di donne, non si avrebbero dati certi sugli omicidi di genere, dato che il Ministero della Giustizia ha smesso di fornirli nel 2009 – e già in base a questi, almeno 3 donne venivano uccise ogni giorno -.
Dopo l’invasione dei territori curdi gli amministratori fiduciari dei municipi hanno disposto la chiusura di tutte le unità per le donne: dipartimento di politica delle donne, linee di assistenza telefonica per le donne, case delle donne, consulenti comunali e scuole materne, tutto è stato chiuso. Ed è stato annullato l’8 marzo come giorno festivo pagato.
Il 25 agosto la piattaforma Kadinlar Birlikte Guclu ha organizzato una tweetstorm contro la comunità religiosa che chiede l’annullamento della Convenzione di Istanbul, attraverso una piattaforma di “padri divorziati” con cui stanno cercando di far annullare la legge 6284 contro la violenza di genere, firmata nel 2012. Ed è davvero incredibile, dato che solo in agosto sono state uccise dai loro partner 49 donne.
Alla drammatica situazione vissuta dalle donne si aggiunge anche quella delle persone appartenenti alla comunità LGBT+, sottoposte negli ultimi mesi a una repressione brutale (senza contare che nel Paese sono stati vietati i pride). Qualcuno, ad esempio, ricorderà la storia di Hande Kader, transessuale massacrata nel 2016, di cui vi abbiamo raccontato qui.
Per farvi capire davvero come stanno le cose, in gallery abbiamo raccontato alcune delle storie delle vittime di femminicidio in Turchia.
Ceren Ozdemir è la vittima numero 390 del 2019: vent’anni, ballerina, studentessa al terzo anno del dipartimento di arte, musica e spettacolo dell’Università di Ordu, è stata accoltellata dopo aver suonato il campanello di casa, rientrata da una lezione di danza. A trovarla la sorella.
Mentre gli inquirenti stanno passando al setaccio i video a circuito chiuso delle telecamere nel complesso residenziale dove la ragazza abitava, la prefettura locale ha dichiarato l’arresto di un sospetto.
Emine, 38 anni, è stata pugnalata a morte il 18 agosto in un caffè della città di Kirikkale, a pochi chilometri da Ankara, davanti alla figlia, di appena dieci anni.
Doveva incontrare l’ex marito Fedai Veran, che poi ha perso la testa:
Dopo avermi insultato mentre parlava della custodia di nostra figlia l’ho pugnalata con il coltello che avevo portato con me.
Le parole dell’uomo in tribunale. L’omicidio di Emine è stato ripreso dalle telecamere del locale, compreso il momento in cui, in fin di vita, la donna urlava “Non voglio morire” mentre la sua bambina la supplicava di sopravvivere.
Şule Çet è stata violentata e poi gettata da una torre ad Ankara nel 2016. Aveva solo 23 anni, e studiava all’università della capitale turca, oltre a lavorare part-time per pagarsi gli studi.
Şule quella sera di fine maggio era rimasta in ufficio fino a tardi con il suo capo e un amico di lui. Il suo corpo è stato trovato sul selciato all’esterno dell’edificio, dopo aver fatto un volo di 20 piani.
Per il suo omicidio sono stati condannati Cagatay Aksu, all’ergastolo, e Berk Akand a 18 anni e 9 mesi.
Nel 2015 l’allora ventenne Özgecan è stata assassinata per aver resistito a un tentativo di stupro, l’11 febbraio, su un minibus a Mersin. Il suo corpo bruciato è stato scoperto solo due giorni dopo. L’omicidio è stato commesso dal conducente del minibus Ahmet Suphi Altındöken, e suo padre, Necmettin Altındöken, e l’amico Fatih Gökçe sono stati complici nel nascondere l’omicidio. Tutti sono stati condannati all’ergastolo aggravato senza possibilità di godere della libertà condizionale.
Tuba Erkol, 37 anni, madre di tre figli – è stata pugnalata a morte da suo marito, che ha ignorato l’ordine restrittivo emesso a causa della violenza a cui l’aveva sottoposta per anni.
Solo ad agosto del 2019, secondo i dati forniti da We Will Stop Feminicide, sono state uccise 49 donne. Trentanove di loro sono stati vittime di persone che ritenevano care, conosciute e di cui probabilmente si erano fidavano o si erano fidate.
14 sono state uccise dai coniugi.8 da parenti7 dagli uomini che frequentavano3 da un ex2 dal padre, e altrettante da fratelli e figli.Una è stata uccisa dal figliastro.
Per le restanti otto, non è stato ancora identificato l’assassino.
Su un muro di Istanbul sono apparse 880 scarpe per denunciare la piaga del femminicidio, in un’opera firmata dall’artista turco Vahit Tuna.
Le 440 paia di tacchi alti rappresentano le donne che nel 2018 hanno perso la vita in Turchia per mano del fidanzato o del marito, e l’idea delle scarpe arriva dalla tradizione turca per cui, quando muore qualcuno, i familiari del defunto lasciano appunto un paio di calzature fuori dalla porta di casa. Ma le scarpe – rosse – sono diventate simbolo del femminicidio anche in Italia.
Le 880 calzature sono incollate al muro dalla parte della suola e occupano una superficie di 260 metri quadrati.
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