Condannato a morte per aver sostenuto le donne: salvate il prof Junaid Hafeez
Il professore Junaid Hafeez è condannato alla morte per impiccagione per aver difeso i diritti delle donne. Cosa possiamo fare per salvarlo.
Il professore Junaid Hafeez è condannato alla morte per impiccagione per aver difeso i diritti delle donne. Cosa possiamo fare per salvarlo.
Il professore pakistano Junaid Hafeez è stato condannato a morte per avere insegnato alle donne a liberarsi dal giogo maschilista per rivendicare i propri diritti. Come Nasrin, l’avvocata condannata a 148 frustate, come molti altri che, nei Paesi musulmani in cui vige la sharia, rischiano il carcere o la vita per difendere il diritto alla democrazia e alla libertà.
La storia del professore sta facendo il giro del mondo anche grazie alla petizione promossa su Change.Org da Helen Haft, che con il ricercatore ha preso parte al programma di scambio accademico Fulbright nel 2013, prima che fosse arrestato per blasfemia.
Dopo quasi sette anni passati in isolamento nel carcere di Multan, il 21 dicembre Junaid è stato condannato alla pena di morte per impiccagione, e proprio per salvarlo Helen ha deciso di portare avanti la petizione, per smuovere le coscienze e far sì che le tante firme raccolte finora – più di 300 mila – arrivino fino al Primo Ministro pakistano Imran Khan. Ma #GiustiziaPerJunaidHafeez non vuole solo tentare di convincere il premier a risparmiare la vita del giovane assistente universitario e ricercatore, ma soprattutto chiedere l’abrogazione delle leggi pakistane sulla blasfemia che, dalla loro introduzione, nel 1986, hanno portato a 1500 accuse.
Solo che un’accusa del genere equivale a una sentenza di morte, come è stato per Asia Bibi, condannata nel 2010 e che ha trascorso anni nel braccio della morte prima di essere assolta nel 2018, o per Rimsha Masih, una quattordicenne cristiana con difficoltà di apprendimento accusata da un leader religioso locale di aver dato fuoco a una copia del Corano, salva solo perché l’Alta corte di Islamabad ha chiuso il caso sostenendo che la bambina fosse stata falsamente accusata.
Ma se pensiamo ad esempio al Governatore del Punjab, Salman Taseer, ucciso nel 2011 dalla sua guardia del corpo per aver criticato la legge, possiamo avere un’idea di quanto l’integralismo religioso sia ancora fortemente compenetrato nel tessuto societario del Paese, e quanto quindi la condanna a morte di Hafeez rappresenti non una remota eventualità, ma un pericolo concreto.
Junaid è stato accusato di blasfemia per aver insegnato tematiche come i diritti delle donne, perché, come spiega Helen Haft nel testo della petizione,
Le leggi contro la blasfemia in Pakistan sono uno strumento che può essere utilizzato contro chiunque in qualsiasi momento. Le leggi impediscono alle persone di parlare non solo riguardo alla religione ma anche su tematiche come i diritti delle donne. Le leggi a oggi hanno ridotto al silenzio attiviste e attivisti per i diritti delle donne, per i diritti umani, giornalisti, professori e cittadini comuni. Mentre minoranze religiose, dissidenti politici, liberi pensatori e intellettuali sono spesso presi di mira, le prime vittime sono gli stessi musulmani.
Sfogliate la gallery per ripercorrere la storia di Junaid e di altre persone condannate per blasfemia.
Junaid, professore di 33 anni, attivista dei diritti umani, insegnava all’università Bahauddin Zakariya a Multan, una città pakistana nella regione del Punjab; era tornato nel suo Paese dal Mississippi, dove aveva passato un soggiorno accademico come borsista del Programma Fulbright, conoscendo anche Helen Heft.
Dopo una lezione cui ha partecipato una scrittrice, Junaid è stato accusato di blasfemia per aver parlato dei diritti delle donne: un gruppo di studenti conservatori, guidato da uno studente affiliato con Islami Jamiat Talaba (un’ala del partito di linea dura Jamaat-iIslami) ha spinto le autorità ad accusarlo, anche di aver insultato il Profeta Maometto sui social media.
Accuse mai provate, ma in Pakistan le prove, in realtà, servono a poco.
Secondo il codice di procedura penale del Pakistan
chiunque a parole, sia per iscritto che a voce, ovvero attraverso una rappresentazione visibile o insinuazione, diretta o indiretta, denigra il sacro nome del Santo Profeta Maometto (su di Lui la pace)
viene condannato a morte.
Dal 2013 Junaid vive in isolamento nel carcere di Multan, e nel suo processo in almeno otto occasioni la corte è stata sostituita; il professore è stato minacciato di morte, mentre ogni richiesta di accelerare il procedimento, così come quella di cambiare la prigione in quella, meno esposta, di Lahore, è caduta nel vuoto.
Rashid Rehman, attivista pakistano per i diritti umani, che aveva ricevuto minacce per la difesa di persone accusate dalle leggi sulla blasfemia, fra cui Junaid, è stato ucciso nel maggio 2014 da colpi d’arma da fuoco, proprio a Multan.
C’è fanatismo e intolleranza nella società, e queste persone non considerano mai se la loro accusa è giusta o sbagliata – aveva dichiarato – Le persone uccidono per 50 rupie. Allora perché qualcuno dovrebbe esitare a uccidere in un caso di blasfemia?
Il 21 dicembre 2019 Junaid è stato infine condannato alla pena di morte per impiccagione.
Helen Heft ha lanciato la petizione per tentare di salvargli la vita.
Il caso di Junaid verrà sicuramente impugnato in appello, tuttavia nel mentre il professore rischia di essere ucciso in qualsiasi momento – si legge nel testo della petizione – Non c’è garanzia che il verdetto verrà ribaltato ed è imperativo che la comunità globale prenda posizione contro questa violazione dei diritti umani.
Asia Naurīn Bibi, lavoratrice agricola a giornata, cristiana, nel 2009 ha un diverbio con le lavoratrici vicine, di religione musulmana, che la denunciano per aver offeso Maometto.
Asia viene picchiata, chiusa in uno stanzino, stuprata, poi arrestata pochi giorni dopo nel villaggio di Ittanwalai: nonostante non ci siano prove contro di lei, viene condotta nel carcere di Sheikhupura, e l’11 novembre 2010, più di un anno dopo l’arresto, il giudice di Nankana Sahib, Naveed Iqbal, la condanna a morte.
La donna viene prosciolta da tutte le accuse solo nel 2018, grazie alle mobilitazioni internazionali anche da parte di Amnesty International.
Rimsha è una bambina cristiana con difficoltà di apprendimento, che a 14 anni viene accusata da un leader religioso locale di aver dato fuoco a una copia del Corano. Nonostante l’età e le condizioni di salute, viene arrestata e accusata di blasfemia. Dopo tre mesi è l’Alta corte di Islamabad a chiudere il caso, spiegando che la bambina fosse stata falsamente accusata senza alcuna prova. Ma, per le minacce ricevute, Rimsha Masih e la sua famiglia sono fuggiti in Canada, dove hanno ottenuto asilo politico.
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