C’è un uomo, in Thailandia, che sta affrontando una disperata corsa contro il tempo per salvarsi la vita. Denis Cavatassi è accusato dal 2011 di essere il mandante dell’omicidio del socio, Luciano Butti, e il primo grado di giudizio del tribunale dello stato asiatico ha già condannato il cinquantenne imprenditore originario di Teramo alla pena di morte, prevista per l’omicidio. Adesso Denis sta affrontando il processo di appello, che potrebbe confermare la terribile sentenza, mentre in Italia la famiglia, con a capo i fratelli Romina e Adriano, si sono rivolti al Senato per far conoscere il caso dell’uomo e portare la diplomazia a intervenire.

Nel nostro paese la situazione di Cavatassi è seguita dall’avvocato Alessandra Ballerini, una delle maggiori esperte di diritti umani (segue anche la famiglia Regeni nella lotta per avere giustizia dopo la morte al Cairo di Giulio), mentre proprio il 6 febbraio 2018, accompagnati da Amnesty International, dall’associazione “Prigionieri del silenzio” e dal senatore Luigi Manconi in Senato, Romina e Adriano hanno tenuto una conferenza a Palazzo Madama per spiegare la vicenda e far comprendere che la vita del fratello è davvero appesa a un flebilissimo filo.

Le nostre speranze sono che venga assolto e dichiarato innocente, quale è – ha dichiarato Romina Cavatassi a Repubblica –  Speriamo e confidiamo nella serietà e professionalità della corte suprema, composta da tre giudici di esperienza. Speriamo che i giudici della corte suprema eseguano un esame attento della documentazione, dell’iter processuale e delle varie violazioni che ci sono state. Speriamo che gli si garantisca un processo equo che finora non c’è stato. Ci stiamo rivolgendo all’attenzione sociale e istituzionale perché vorremmo che il suo e il nostro inferno finisse, ma vorremmo anche che a tutti, colpevoli o innocenti che siano, venisse garantito un processo equo e un trattamento più umano.Quello che lui racconta è sconcertante e a tratti disumano“.

Già, perché la realtà delle carceri thailandesi raccontata da Denis, che può comunicare con i parenti in Italia solo attraverso lettere, assomiglia davvero a un inferno dantesco, fatto di privazioni morali, fisiche, di condizioni disumane e inaccettabili. Denis aveva la possibilità di fuggire, di tornare nel suo paese, ma non l’ha fatto. Ecco com’è andata la sua storia.

L’omicidio del socio e le accuse

Nel marzo 2011 Luciano Butti viene ucciso a colpi d’arma da fuoco a Pukhet, raggiunto dagli spari mentre viaggiava a bordo di una motocicletta, come racconta thesocialpost.it. Poco tempo dopo, tre thailandesi vengono fermati per l’omicidio, uno fa il nome di Cavatassi come mandante, e spiega che l’uomo avrebbe pagato 50 mila baht, pari a tremilacinquecento euro, per far uccidere il socio, con cui, aveva un ristorante, “L’Italiano”. Forse Butti, afferma l’accusa, aveva un debito nei confronti di Denis, che stanco di aspettare ha deciso di eliminarlo.

Denis viene comunque liberato su cauzione, ed è a quel punto che potrebbe scappare dal paese, tornare in Italia e riappropriarsi della sua vita e della sua libertà; invece resta per affrontare serenamente il processo che, tuttavia, non si rivela, secondo quanto affermano i parenti, affatto equo.

All’ultima udienza hanno sfilato 16 testimoni dell’accusa, ma polizia e scientifica si sono presentati senza avere in mano alcun elemento di prova che ad assassinare Butti sia stato Denis.

Ha spiegato il fratello Adriano, in un’intervista rilasciata a Il Centro, riportata da thesocialpost. Come detto, l’imprenditore abruzzese, che in Thailandia era arrivato dopo aver lavorato 6 mesi a un progetto di sviluppo agrario in Nepal come volontario con una ong italiana, Lvia, non può comunicare con la famiglia nel nostro paese, e la sorella Romina viene informata solo dalla cognata.

Non ci è consentito chiamarlo – ha raccontato la donna a Repubblica –  né a lui di chiamare noi. Abbiamo notizie attraverso la moglie e gli amici che vanno regolarmente a trovarlo. Io l’ho visto il 5 gennaio. Sono andata a trovarlo insieme a mia cognata, a un amico d’infanzia in vacanza in Malesia e, per la prima volta, insieme alla mia nipotina di 6 anni: Asia. Lo abbiamo visto per un’ora circa attraverso uno schermo interno. Una specie di Skype. Non ci hanno consentito di vederlo di persona, sebbene attraverso un vetro. Vedere sua figlia lo ha straziato ma gli ha anche dato tantissima forza“.

Le parole che si possono leggere nelle sue lettere, però, danno drammaticamente tutta l’idea della sua sofferenza fisica e psicologica, tutta l’angoscia legata alla sua sorte che lentamente lo sta soffocando, e il terrore per le condizioni in cui vive in prigione. Attualmente ricoverato all’ospedale di Bangkok per essere operato a un’ernia inguinale, Denis, racconta la sorella, alterna momenti di speranza ad altri di completa disperazione, e confida in una mano dall’Italia. Potrebbe, forse, scoppiare un caso diplomatico per tentare di salvargli la vita, ma l’unica cosa certa, al momento, è che le lancette dell’orologio scorrono inesorabili in Thailandia, e il processo d’appello potrebbe confermare una condanna a morte che, per molti, sarebbe il frutto di un processo iniquo. Nessuno della famiglia Cavatassi ha chiesto che Denis non venga processato – per quanto lo ritengano innocente – ma almeno che possa ricevere un giudizio giusto. “Vorremmo che il suo e il nostro inferno finisse, ma vorremmo anche che a tutti, colpevoli o innocenti che siano, venisse garantito un processo equo e un trattamento più umano“.

Il racconto dell’inferno thailandese di Denis è raccolto nelle immagini della gallery.

Denis Cavatassi: chi è l'italiano condannato a morte in Thailandia
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