*** Aggiornamento del 30 marzo 2023 ***

È cominciato a Brescia il processo a carico di Mustafa Cheema e del figlio Adnan, padre e fratello di Sana Cheema, uccisa nel 2018 per aver rifiutato un matrimonio combinato. Il dibattimento è però caratterizzato dalla paura dei testimoni: “Non mettete il mio nome, temo per la mia vita, è un attimo che se torno in Pakistan mi fanno fuori. Se hanno ucciso la figlia possono uccidere anche me. Sono molto potenti” sono le parole di una delle persone ascoltate in aula, come riporta la sezione bresciana de Il Giorno.

Il 7 marzo, di fronte alla Corte presieduta dal magistrato Roberto Spanò, sono stati ascoltati amici, conoscenti e vicini di casa dei Cheema, che dopo l’assoluzione per “insufficienza di prove” in Pakistan non hanno mai più fatto rientro in Italia, dove invece sono imputati di omicidio politico.

Questo il racconto di un collega dell’autoscuola dove Sana Cheema lavorava, aiutando i connazionali con la patente: “So che Sana aveva delle discussioni con il padre per ragioni famigliari; lui lamentava che uscisse troppo con gli amici, che non fosse sposata. Una volta dopo un litigio Sana era andata in ospedale, lui l’aveva colpita con un oggetto, forse un mattarello, ma lei gli voleva bene, non voleva denunciarlo. Anche il fratello Adnan le rompeva le scatole per qualsiasi cosa”.

Nel gennaio 2018 mi disse che doveva andare in Pakistan per sposarsi – ha proseguito l’uomo – Voleva raggiungere la madre perché era nata la figlia della sorella, la quale si era sposata con un cugino di primo grado, glielo avevano imposto. Il padre è un potente, conosciuto in ambito governativo. Dove vivono loro l’onore è più importante della vita. I genitori avevano individuato 4 o 5 uomini da presentare a Sana, volevano sposasse uno della casta, ma lei era convinta che se il futuro marito non le fosse piaciuto sarebbe tornata in Italia.

Paolo Facchinetti, vicino di pianerottolo, l’ha descritta invece cosiì: “Sana era moderna ma non trasgressiva, i famigliari più tradizionali, ma non li ho mai sentiti litigare. Mi stupì il viaggio in Pakistan. Lo incontrai [il padre, ndr.] sulle scale, spiegò che Sana doveva sposarsi là, ma io sapevo che lei voleva un fidanzato italiano. Mi stupì ancora di più”.

*** Aggiornamento del 12 aprile 2022 ***

Si erano perse le speranze di vedere a processo in Italia Mustafa Cheema e il figlio Adnan, accusati di aver ucciso la giovane Sana Cheema nel 2018, e assolti in Pakistan per insufficienza di prove. Dopo essere stati a lungo irreperibili, i due uomini, padre e fratello della ragazza morta, hanno contattato, nell’aprile del 2021, un avvocato del Foro di Brescia per occuparsi della loro difesa, nel processo che, dopo vari rinvii, dovrebbe prendere il via a maggio.

I due si sono sempre dichiarati innocenti, ma il pg Pierluigi Maria Dell’Osso, che si è sempre occupato dell’indagine, ritiene che i Cheema abbiano strangolato la ragazza con il foulard usato come tradizionale copricapo, per il suo rifiuto di sposare l’uomo scelto dalla famiglia.

*** Aggiornamento del 16 luglio 2021 ***

Non c’è pace per Hina Saleem, la ragazza di origini pakistane uccisa appena ventenne dal padre che non approvava la sua volontà di vivere all’occidentale; nei giorni scorsi il fratello di Hina Saleem, Suleman, diventato capofamiglia dopo l’arresto del genitore, ha tolto la foto posta da un anonimo sulla lapide della ragazza, con questa motivazione.

In quella foto Hina era troppo spogliata, indossava una canottiera rosa e non è rispettoso apparire così su una tomba.

Durante la trasmissione di Rete4 Zona bianca Suleman ha anche aggiunto che il padre è pentito dell’omicidio di Hina Saleem – il Tribunale nella sentenza di appello ha confermato i 30 anni di reclusione per l’uomo – e che la sorellina minore, nata in Italia e cresciuta all’occidentale, quest’anno andrà in Pakistan per sposarsi con un uomo che non conosce.

Lei è d’accordo, compirà 18 anni. Non tutto dipende dalla religione.

Ha affermato Suleman Saleem. La ferocia nei confronti delle giovani donne islamiche che non accettano di piegarsi a famiglie integraliste però non conosce sosta, purtroppo; come sappiamo, non è ancora stato trovato il corpo della giovane Saman Abbas, la diciottenne scomparsa dalla provincia di Reggio Emilia ormai due mesi fa, anche se appare ormai certo che sia stata uccisa da uno zio per gli stessi motivi di Hina Saleem e Sana Cheema: non voleva sposarsi con un uomo deciso dalla famiglia, ma scegliere per sé.

*** Articolo originale ***

Molto spesso, per le famiglie straniere che approdano in un paese nuovo, imparare a convivere serenamente con la cultura e le tradizioni del luogo che li ospita e che diventa la loro nuova casa non è facile.

Capita così che i primi ad apprendere meglio gli usi e i costumi del nuovo paese, a farli propri e ad adeguarvisi siano i figli, i ragazzi più giovani, soprattutto se nati lì o se trasferiti da molto piccoli; in generale, per i ragazzi è più facile non solo assimilare culture diverse da quella del proprio nucleo familiare, che comunque continua a essere rispettata, ma è certamente motivo di inclusione e socializzazione appropriarsi di quei modi di vivere e delle abitudini tipiche dei loro coetanei, anche solo per sentirsi parte del gruppo e non essere emarginato o discriminato.

Le cose, però, non sempre sono semplici, in particolare quando lo stile di vita perseguito dai figli cozza in modo importante con i precetti religiosi o culturali della famiglia di appartenenza; abbiamo spesso parlato dell’usanza, ancora in vigore presso molti popoli, del matrimonio combinato, tradizione ai nostri occhi arcaica e persino lesiva della libertà individuale consacrata dal diritto internazionale, eppure tuttora perno della società in moltissime aree del mondo. Ci sembra un fenomeno assolutamente lontano e remoto dalla nostra idea di famiglia finché ne leggiamo sui giornali o se ne sente parlare vagamente, ma spesso anche le ragazze che vivono nei nostri paesi, che frequentano le stesse scuole dei nostri figli, che lavorano o che escono fuori a divertirsi finiscono vittime di queste imposizioni da parte dei padri, ancora fortemente aggrappati alle proprie tradizioni al punto da voler decidere con chi dovrà passare l’intera vita la propria figlia.

E quando queste ragazze si ribellano, guidate dallo spirito di autodeterminazione e indipendenza che hanno acquisito vivendo fuori dal paese natio, assimilando appieno il potere della libertà decisionale che nella loro terra, improntata al patriarcato, probabilmente sarebbe stata loro negata, può succedere, purtroppo l’irreparabile.

Nel 2006 perse la vita Hina Saleem, una ragazza di origini pakistane, ma arrivata in Italia appena quattordicenne, uccisa dai parenti. La sua unica colpa, volersi uniformare alle abitudini occidentali, giudicate “sbagliate” dalla famiglia.

Mentre il 18 aprile è arrivata la notizia, terribile, dell’uccisione di  Sana Cheema, anche lei pakistana di origine, ma cresciuta a Brescia, massacrata a soli 25 anni durante un viaggio nel suo Paese, presumibilmente perché intenzionata a sposare un italiano rifiutando così le nozze combinate che la famiglia aveva organizzato per lei. Sana è stata strangolata, come rivelato dai risultati dell’autopsia realizzata dal laboratorio forense del Punjab, il quale ha analizzato le analisi dopo la riesumazione del corpo, sepolto frettolosamente dai parenti, che hanno affermato che la giovane ha avuto un infarto.

Sana è dunque morta per strangolamento, lo hanno riferito i media pakistani che citano il rapporto dell’autopsia, riportato anche da Repubblica: gli esami dimostrano infatti che “l’osso del collo è stato rotto”, circostanza che porta a escludere l’ipotesi dell’infarto.

Nonostante ciò, nel febbraio del 2019 il tribunale distrettuale di Gujrat, nel Nord-Est del Pakistan, ha assolto il padre, il fratello, uno zio e la madre (11 gli imputati in tutto), per insufficienza di prove. E questo a dispetto del fatto che proprio padre, zio e fratello della ragazza avessero inizialmente confessato il suo omicidio, salvo poi ritrattare.

La notizia è stata commentata da Jabran Fazal, portavoce della comunità pakistana a Brescia: “Non so se il padre ora tornerà a Brescia. Aspettiamo le motivazioni della sentenza. In Pakistan c’è la pena di morte per l’omicidio e probabilmente non è stato individuato l’esecutore materiale del delitto di Sana“.

In Italia, come si legge in un documento di Fq Millenium pubblicato anche da Il Fatto Quotidiano, non esiste una legge sui matrimoni forzati, ma, grazie alla ratifica della Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne del 2011, questa tipologia di abusi rientra nel reato di maltrattamenti, puniti dall’articolo 572 del codice penale con una pena da 2 a 6 anni di carcere.

Nei centri antiviolenza e ai servizi sociali, sono decine le ragazze che chiedono aiuto  e che cercano di scappare da unioni combinate contro il loro consenso. Vengono soprattutto da Pakistan, India o Bangladesh, e hanno tra i 16 e i 25 anni.

Un sistema di protezione ufficialmente non esiste, quindi se lo sono inventato le operatrici sociali, che “prelevano” le ragazze come testimoni di giustizia. Se la ragazza non riesce a uscire di casa spontaneamente, interviene un esterno, come un medico, una professoressa o un’amica, e si organizza una vera e propria scena con attori e comparse. Se per la legge la causa è persa qualora la ragazza avesse ormai varcato il confine nazionale, per il “servizio protezione“non è mai troppo tardi: cerca di smuovere tutti i canali di comunicazione clandestini aiutando le ragazze a trovare un pretesto per raggiungere l’aeroporto. Un’eccellenza nel settore è considerata l’associazione Trama di Terre, fondata a Imola nel 1997, che dal 2011 si è occupata di 49 donne: 31 dal Pakistan, 4 dall’Albania, 3 dal Bangladesh, 3 dal Marocco, 2 dall’India, una dallo Sri Lanka, una dalla Tunisia, una dalla Costa d’Avorio, una dall’Afghanistan, una dal Kurdistan, una dall’Iran.

Purtroppo, però, non sempre riescono a intervenire in tempo. Hina e Sana non sono infatti le uniche vittime di una follia cieca capace di trasformarsi in ferocia irrazionale, che spinge a uccidere il sangue del proprio sangue per una questione d’onore e credibilità e di annientare ogni parvenza di umanità, calpestando l’amore (sia quello familiare, che la libertà delle figlie di amare) per proteggere il proprio nome da un’onta ritenuta inaccettabile. Per il padre di Sana, come per quello di Hina, la devozione verso la propria cultura era più forte dell’affetto genitoriale, e le figlie dovevano pagare quella ribellione vergognosa alle regole di un paese che, pure, avevano abbandonato. Anche, forse, per trovare nuove prospettive di vita, nuove libertà e quel libero arbitrio di cui, però, sono state comunque private.

Nella gallery raccontiamo la loro storia ma anche quelle di molte altre ragazze, diventate vittime del loro stesso desiderio di liberarsi dal gioco di quella tradizione in cui non si riconoscevano, colpevoli solo di voler cambiare il proprio destino. O, almeno, di poterlo scegliere.

Hina Saleem e Sana Cheema, ragazze uccise per aver detto "no" al matrimonio combinato
Fonte: Corriere.it/milano.corriere.it
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