Dopo quattro anni gli Stati Uniti cambiano volto: Joe Biden, il candidato democratico, conquista la Casa Bianca con i 270 voti dei grandi elettori necessari per ottenere la presidenza del Paese, “destituisce” Trump e, soprattutto, stabilisce una storica prima volta: quella di una donna nel ruolo di vicepresidente.
Lei è Kamala Harris, nata a Berkeley, in California, nel 1964, da madre indiana, Shyamala Gopalan, e padre giamaicano, Donald Harris, senatrice per il suo stato di appartenenza dal 2017 e seconda donna nera a essere eletta al Senato dopo Carol Moseley Braun dell’Illinois, negli anni ’90.
Subito dopo la conferma della vittoria, Harris ha pubblicato un tweet davvero significativo:
While I may be the first, I won’t be the last. pic.twitter.com/R5CousWtdx
— Kamala Harris (@KamalaHarris) November 8, 2020
Mentre potrei essere la prima a sedere in questo ufficio – ha dichiarato nel suo primo discorso – non sarò l’ultima. Perché ogni bambina che stasera sta assistendo a tutto questo vede che questo Paese è pieno di possibilità.
La vittoria di Biden e Harris ha suscitato allo stesso tempo gioie e perplessità, soprattutto per alcune episodi legati al passato politico dei due, anche da parte degli stessi democratici, tanto che più d’uno sembra aver esultato per la conquistata presidenza solo per il fatto di aver scalzato il tycoon Trump dal comando. Se a Joe Biden viene ricordata soprattutto l’opposizione all’integrazione razziale degli anni ’70, in un contesto storico in cui comunque l’argomento, tra i più caldi sul tavolo politico, poteva far guadagnare facili consensi, su Kamala Harris ci sono altri aspetti problematici, comunque in qualche modo legati alla questione razziale.
Aspetti che, in una trattazione oggettiva della notizia della sua elezione, non possono naturalmente essere trascurati, e che, fatta salva l’importanza della sua vittoria per il movimento femminista, è giusto affrontare. Anzi, come giustamente sottolinea Jennifer Guerra in questo post
Visualizza questo post su InstagramUn post condiviso da Jennifer Guerra (@_jenniferguerra_) in data:
Il femminismo ha la capacità di cogliere la complessità della realtà. Forse perché è, per sua natura, una reazione al pensiero binario che stabilisce cosa è giusto e cosa e è sbagliato, cosa è degno e cosa no, cosa è accettabile e cosa invece va condannato.
Le ombre che riguardano la figura di Kamala Harris hanno a che fare soprattutto con il passato da procuratrice generale di San Francisco prima, e della California poi, ruolo guadagnato nel 2008, in cui la neoeletta vicepresidente avrebbe apertamente protetto i poliziotti rei di compiere abusi e violenze sulla comunità afroamericana.
Se facessimo un voto per alzata di mano su chi vorrebbe più agenti per le strade, la mia mano si alzerebbe.
È stata una sua dichiarazione celebre, pubblicata nel libro Smart of crime del 2009. Non è un mistero neppure che nel 2014, ancor prima dell’omicidio di Michael Brown a Ferguson da cui scaturì il Black Lives Matter, gli attivisti per i diritti civili di Oakland distribuissero volantini su cui campeggiava la scritta “Chiedete al procuratore generale Kamala Harris di indagare i poliziotti assassini! È il suo lavoro!”.
Nei suoi anni da procuratrice di San Francisco si è assistito a un aumento dei casi di violenze da parte della polizia, in proporzione a un numero di inchieste sulla condotta dei poliziotti decisamente inferiori, cosa che ha contribuito a cementare il suo ruolo, nell’immaginario collettivo, come membro dell’establishment; è chiaro, quindi, che ci sia oggi una notevole curiosità su quello che sarà l’approccio di Harris sul tema, soprattutto dopo che il BLM ha ripreso vigore, estendendosi a livello mondiale.
Non è dalla sua parte neppure il fatto di aver intitolato il suo ultimo libro, The Truths We Hold, come la Dichiarazione d’Indipendenza, il cui principale autore, Thomas Jefferson, è finito nel mirino dei manifestanti nella ormai celebre distruzione delle statue raffiguranti personaggi collusi con il colonialismo e lo schiavismo, proprio per il suo lato da schiavista.
Ciononostante, persino un’attivista radicale come Angela Davis, una delle più forti esponenti dell’abolition democracy, la cui tesi principale è proprio che dalla fine della schiavitù possa scaturire la più generale abolizione delle strutture che alimentano il razzismo, su ogni livello, ha dato il proprio sostegno a Kamala Harris e oggi si dichiara felice della sua vittoria.
Ora non voglio dire che Kamala non abbia aspetti problematici – ha detto in un discorso, citato da Guerra, già nell’agosto del 2020 – […] Ma credo che sia femminista un approccio in grado di lavorare su quelle contraddizioni, in grado di riflettere su di esse. Perché, ve lo posso dire, me lo sentivo, anche prima di sapere che avremmo dovuto sostenere Biden, che non è il candidato migliore. È molto problematico, in molti modi. Ma prima abbiamo bisogno di liberarci della persona che è al comando in questo momento.
In un’altra occasione Davis aveva sottolineato che avrebbe dato il proprio voto a Biden-Harris, nonostante molti punti oscuri su di loro, perché la loro elezione avrebbe creato più opportunità di attivismo, che altrimenti si sarebbero ridotte se Trump avesse vinto di nuovo.
Voterò per Joe Biden e Kamala Harris, ma non voterò per loro – ha detto – Voto per noi. Voto per la nostra capacità di continuare il lavoro che è iniziato in modo così potente durante questo periodo, dopo l’omicidio di Breonna Taylor e il linciaggio di stato di George Floyd.
L’elezione, insomma, è vista come il nuovo punto di partenza; da oggi in poi, entrambi i candidati dovranno probabilmente dimostrare di aver cancellato alcuni fondamentali errori del passato, per essere pronti ad abbracciare le esigenze di tutto il popolo americano.
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