Quando leggiamo o ascoltiamo uno dei – purtroppo – tanti fatti che riguardano la violenza sulle donne, siamo, nella maggior parte dei casi, portati a pensare che si tratti sempre del gesto violento compiuto da un uomo verso una donna. Forse ingannati dallo squilibrio evidente di forza fisica esistente tra i due sessi, sicuramente fuorviati, nel pensiero, dai troppi episodi di cronaca in cui accade che l’orco sia effettivamente l’uomo, l’ex compagno, il marito, un amante o chi per lui.

Ma non sempre è così, e sì, anche le donne possono far male, agli uomini o ad altre donne, anche le donne sanno essere “bulle”, anche loro sanno essere criminali; può sembrare un discorso apparentemente scontato – “Se sei un criminale lo sei, che tu sia uomo o donna” –  ma è indispensabile ricordarlo soprattutto a chi associa al comportamento violento sempre e solo una questione di”genere”, come fossimo un branco di lupi in perenne ricerca del maschio dominante.

Chiarire che l’atteggiamento violento e criminale non è prerogativa esclusivamente maschile, ma rappresenta una piaga decisamente più drammatica, che va al di là delle mere dinamiche di sesso e di identità, che investe molti più fattori e aspetti a livello sociale, culturale, psicologico,  è invece non solo doveroso, ma onesto. Soprattutto per chi, come Mariam, ha trovato sulla propria strada donne violente, prepotenti, capaci di farle del male fino a ucciderla.

Mariam Moustafa aveva solo 18 anni e la “colpa”, secondo il gruppo di ragazze, sue coetanee o poco più grandi, che l’ha perseguitata per settimane, di avere la pelle più chiara della loro. O, forse, di essere per metà italiana e per metà egiziana. O, ancora, solamente di essersi permessa uno sguardo, un incrocio di occhi, un passaggio sulla loro stessa strada.

Cosa agisca a livello psicologico nella mente di un “bullo”, è una domanda che ci poniamo ogni volta che ci troviamo costretti a raccontare di ragazzi che vengono umiliati, picchiati, torturati mentalmente e fisicamente dai loro aguzzini, spesso giovani quanto e più di loro, per un difetto, per un chilo giudicato di troppo, per una tonalità di pelle diversa, o chissà per quali altri migliaia di assurdi motivi. Cosa abbia agito nella mente di queste ragazze che avevano preso Mariam come obiettivo dei loro scherni, quindi, è altrettanto inintelligibile a noi, che possiamo solo prendere atto della tragedia che dal loro comportamento si è consumata: perché Mariam, oggi, non c’è più. È morta, dopo tre settimane di lenta, straziante e dolorosa agonia, per le botte ricevute, per le ferite riportate in seguito all’aggressione del branco che, come accade sempre in questi casi, fatto di individui singolarmente deboli è improvvisamente diventato forte di fronte all’impotenza di una sola ragazzina, spaurita, terrorizzata, smarrita di fronte alla più normale delle domande: “Perché a me, cosa ho fatto io?”.

Parliamoci chiaro: ogni volta che una delle vittime preferisce togliersi la vita anziché continuare a sopportare una vita infernale dove, pur giovanissimi, non si vedono spiragli, vie d’uscita, i bulli hanno le mani macchiate di sangue. Non uccidere materialmente non li rende meno colpevoli, meno responsabili, e non si può fare appello alla “debolezza mentale” di chi subisce come se si volesse trovare una giustificazione a chi proprio in quei punti di fragilità colpisce, logorando incessantemente e tormentando.

Ma, nel caso di Mariam, è chiaro che alle ragazze responsabili di averla aggredita sia imputata ben altra colpa, che è quella di aver fisicamente portato alla morte la ragazza, dopo aver  costretto lei e la sua famiglia a un calvario di quasi un mese.

Molti sono gli elementi, le chiavi di lettura, gli approcci e le considerazioni che questo terribile caso porta con sé; legati a doppio filo, nel massacro della diciottenne che con la famiglia si era trasferita a Nottingham dopo aver passato 13 anni a Ostia, ci sono il bullismo, la violenza femminile già citati, ma anche il forte degrado sociale, il disagio di una generazione che trova consolazione e sfogo nella repressione di frustrazioni e rabbia nell’aggressività, e, immancabilmente, la componente razzista.

Che, come si vede, non trova espressioni solo nel “bianco contro il nero”, ma ha forme e facce diverse e variegate: quella del nero verso il  bianco, ad esempio, o dell’inglese verso l’italo-egiziana, perché in fondo, è bene ricordarlo, siamo sempre il Sud di qualcun altro.

Proprio di razzismo ha in effetti parlato Hatim Dawod Moustafa, papà di Mariam, che di questo ha accusato non solo le ragazze che hanno pestato sua figlia riducendola in fin di vita, ma anche e soprattutto le autorità e l’ospedale della cittadina inglese, come si legge nella nostra gallery; tutti conniventi, sostiene l’uomo, nel “declassare” il caso di Mariam a cosa di poca importanza, tutti pronti a lavarsi mani e coscienza di fronte a un massacro che, come leggerete nelle sue dichiarazioni, era già stato annunciato.

Mariam Moustafa, il padre: "Non è stata uccisa per bullismo, ma per razzismo"
bbc
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