Aveva 18 anni, Pamela, un percorso ben più difficile rispetto alla gran parte delle sue coetanee e un disagio interiore profondo, lacerante, un vuoto inaspettatamente difficile da colmare e che non era riuscito a trovare davvero una valvola di sfogo.

Forse anche questo la rendeva così diversa dalle altre, Pamela non aveva la spensieratezza che è concessa a chi sta compiendo i primi, timidi passi verso il mondo degli adulti ma ancora strizza l’occhio all’infanzia appena lasciata alle spalle, alle bambole riposte da poco sugli scaffali e ai giochi lasciati per inseguire i primi battiti del cuore; nei suoi occhi grandi, scuri, con le ciglia lunghissime infoltite dal mascara, c’era un’inquietudine ben più matura dei suoi 18 anni.

Eppure, di sogni e aspirazioni ne aveva anche lei, come ogni diciottenne: inseguiva con fiducia il desiderio di un amore, ad esempio, scriveva parole innamorate disegnando un futuro luminoso accanto al suo fidanzato; voleva diventare un’estetista, seguire le orme di mamma Alessandra con cui passava le giornate nel salone di bellezza vicino piazza Re di Roma, come racconta il Corriere.

Ma i tormenti che portava con sé avevano finito con il diventare più forti delle belle cose, delle ambizioni, dei progetti, l’avevano lentamente soffocata, avviluppandola in una spirale di disagio da cui Pamela sembrava poter trovare via d’uscita solo attraverso le droghe; spesso ne parlava, come un lenitivo contro i guai, nei suoi post su Facebook, alternandoli ad altri, a frasi da cui traspariva evidente, freddo, doloroso come uno schiaffo in faccia tutto il male che questa ragazza portava come bagaglio non richiesto dalla vita.

Pamela Mastropietro è finita fatta a pezzi, smembrata e chiusa dentro due trolley che sono stati recuperati nelle campagne di Pollenza, nel maceratese; era scomparsa dal 29 gennaio 2018, da quando si era allontanata volontariamente dalla comunità “Pars” di Corridonia, provincia di Macerata, di cui era ospite dall’autunno precedente.

Cercava di risolvere i suo problemi, ma spesso quel malessere inestinguibile, e sempre latitante in lei, tornava prepotentemente fuori, reclamava il suo spazio e allora lei fuggiva. Era già scappata da strutture di recupero, racconta il Corriere che ha seguito la cronaca della vicenda, ma dopo la fuga volontaria del 29 gennaio – in cui però aveva lasciato sia il telefono che i documenti nella sua stanza alla “Pars” – la madre aveva lanciato un disperato appello alla trasmissione di Rai 3 Chi l’ha visto, nella speranza di avere notizie di sua figlia.

Speranze che si sono frantumate praticamente in diretta televisiva, quando la conduttrice Federica Sciarelli ha riportato, nella puntata del 31 gennaio, le parole della donna, che ha saputo della morte della figlia solo attraverso i media, i primi a diffondere la notizia che il cadavere rinvenuto, smembrato, nelle valigie, fosse proprio quello di Pamela.

Per il brutale assassinio di Pamela, continua il Corriere, sarebbe già stato fermato un uomo, un nigeriano già noto alla polizia, individuato grazie alle immagini del sistema di sicurezza nei pressi di una farmacia a Macerata, in cui sembra pedinare la ragazza. L’uomo avrebbe ammesso di aver seguito per un po’ Pamela, prima di perderla di vista, ma ha negato ogni coinvolgimento nell’omicidio, riferendo anzi ai carabinieri particolari che condurrebbero ad altre persone, su cui le forze dell’ordine stanno attualmente indagando.

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Al di là delle indagini e degli sviluppi giudiziari che ci saranno, e che naturalmente speriamo possano portare il prima possibile all’arresto del mostro che si è accanito in maniera tanto brutale ed efferata sul corpo di Pamela, ciò che questo caso ci spinge a fare è una riflessione ben più profonda, che parte proprio dal forte malessere interiore della ragazza, dai suoi disagi palpabili, per ampliarsi però ad altre prospettive; quelle di chi, immancabilmente, dopo la notizia del ritrovamento del cadavere di Pamela ha colto l’occasione per sfoggiare moralismi o impeccabili pruderie perbeniste, inscenando improvvisati e fin troppo facili processi ai genitori, “incapaci di sorvegliare la figlia” o “assenti”. Se non addirittura di liquidare l’orrore di un crimine con un altrettanto agghiacciante “in fondo se l’è un po’ cercata”.

Nell’odiosa abitudine dei sadici morbosi, pronti ad affondare il colpo nel dolore e nello strazio di una famiglia che piange una figlia uccisa, di cercare per forza una colpa anche nella vittima, fioccano adesso le accuse, i “però se” e, naturalmente, le sentenze al vetriolo vomitate sulla scia di “a mia figlia non sarebbe mai potuto succedere”. Certo, perché ogni genitore parte dallo stesso punto, che è la sicurezza assoluta di poter garantire protezione, tutela, assistenza ai figli. Non solo di esserci, ma anche di accorgersi di tutto, di prevenire, di salvare.

Peccato che non sia così facile. Perché un figlio a un certo punto smette di essere il sunto di ciò che ci si è impegnati a plasmare, per essere una persona. Con le proprie fragilità, anche, spesso insondabili, spesso nascoste benissimo persino a se stessi, figuriamoci ai genitori.

Pamela era una ragazza fragile, divorata dalle proprie insicurezze, più labile e sofferente delle coetanee che si disperano per una delusione amorosa ma trovano conforto in un chilo di gelato da condividere con le amiche fra una lacrima e l’altra. Il suo malessere era radicato, viscerale, forse inguaribile, lo si legge in maniera così evidente tra le righe di quei post, fra le emoticon e le citazioni delle canzoni preferite. Forse nemmeno lei sapeva davvero come poter aiutare se stessa, forse avrebbe semplicemente voluto continuare a coltivare i suoi sogni, le sue speranze, ma era schiacciata da un dolore che non era in grado di capire, quindi di combattere.

Forse era circondata da persone ma sola, perché così la faceva sentire la sua fragilità.

Pamela Mastropietro che scriveva il suo dolore fatto di droghe e di sogni
facebook @pamela mastropietro
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