C’è un volto che per dieci anni l’Italia intera ha avuto davanti agli occhi; e c’è una famiglia che dal 22 ottobre 2009 ha aspettato delle risposte, una verità che sembrava tardare ad arrivare, una giustizia smarrita in un labirinto contorto di bugie, false piste, lungaggini burocratiche e omertà colpevole.
Pronunciare le parole “abuso di potere” equivale a blasfemia, a qualcosa di sacrilego, e forse proprio per questo, nel tentativo disperato di inventare un’altra verità per evitare di scontrarsi con quella effettiva, per evitare di cadere nel profano, la storia – quella vera – sulla morte di Stefano Cucchi è rimasta per quasi un decennio avvolta nel mistero, nei non detti, nel mondo dell’ipotetico e del negato. Perché nell’occhio del ciclone ci sono finiti i carabinieri, quelli che stanno dalla parte dei buoni, e questo basta a far tirare il freno a mano alla giustizia; perché fa sempre strano, in fondo, accusare le forze dell’ordine, accettare che a indossare la maschera dei cattivi siano quelli che la legalità la mantengono, e che, anche se abbiamo commesso qualche reato, se non proprio proteggerci dovrebbero almeno rispettarci come esseri umani.
Ma dall’altra parte della scena ci sono Ilaria e la sua famiglia, ci sono sempre stati: quelli che hanno lasciato un fratello, un figlio, che aveva preso una brutta piega, sì, ma stava tentando di recuperare, e si sono ritrovati a seppellire uno scheletro livido e tumefatto, massacrato da quelle che, a tutti gli effetti, sembrano botte, anche se dal 2009 qualcuno sta facendo di tutto per convincerli del contrario.
Per loro, quindi, oggi è impossibile non festeggiare, perché dopo 10 anni di agonia i colpevoli che massacrarono di botte Stefano hanno trovato la loro condanna: nell’aula bunker di Rebibbia la Corte di Assise ha infatti condannato i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati del pestaggio di Cucchi, con pugni e calci, a 12 anni per omicidio preterintenzionale.
L’11 ottobre 2018 è stato il giorno della svolta, quello in cui, per la prima volta, Francesco Tedesco, uno dei carabinieri imputati al processo di primo grado bis, apertosi nel gennaio 2017, ha ammesso di aver assistito al pestaggio del ragazzo da parte di due colleghi.
Fu un’azione combinata – si legge in un articolo del Corriere che riporta le parole del carabiniere – Cucchi prima iniziò a perdere l’equilibrio per il calcio di D’Alessandro, poi ci fu la violenta spinta di Di Bernardo che gli fede perdere l’equilibrio provocandone una violenta caduta sul bacino. Anche la successiva botta alla testa fu violenta, ricordo di avere sentito il rumore. Spinsi Di Bernardo, ma D’Alessandro colpì con un calcio in faccia Cucchi mentre questi era sdraiato a terra.
Francesco Tedesco è stato condannato con la sentenza della Corte d’Assise a due anni e sei mesi per falso. Per il maresciallo Roberto Mandolini, il comandante della Stazione Appia dove fu portato Stefano, la condanna è di 3 anni e 8 mesi.
Ilaria Cucchi, che dal 2009 si è battuta incessantemente per il fratello, e negli anni ha portato avanti manifestazioni, dimostrazioni e petizioni in una lotta solitaria contro un intero sistema, è la dimostrazione lampante di quanto il coraggio, la forza di volontà e il desiderio di giustizia possano portare a dei risultati insperati. Lei, che non ha mai mollato, oggi, forse nemmeno consapevole di stare combattendo una guerra da sola per i diritti civili di un’intera nazione, può guardare il muro sgretolarsi lentamente. Questa sentenza ne è la prova, che non fa di Stefano Cucchi un santo, ma dà il giusto nome a chi ha compiuto quello scempio su di lui: colpevoli.
Arrestato il 15 ottobre per possesso di hashish
Stefano Cucchi, 31 anni, che lavora come ragioniere nello studio di famiglia nel quartiere Casilino, a Roma, viene arrestato il 15 ottobre 2009 nel parco degli Acquedotti. È stato trovato in possesso di 20 grammi di hashish e di alcune pastiglie.
Muore una settimana dopo in ospedale
Stefano viene trovato morto in una stanza del reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove era ricoverato da quattro giorni, il 22 ottobre, una settimana dopo l’arresto. Al momento della morte pesava 27 chili. Secondo i risultati dell’autopsia Stefano è morto alle tre del mattino.
Il primo processo
Nel marzo 2011 si apre il processo di primo grado, per cui viene chiesto il rinvio a giudizio per 13 persone: tre infermieri, sei medici, tre agenti di polizia penitenziaria e Claudio Marchiandi, direttore dell’ufficio detenuti. Quest’ultimo, che aveva chiesto il rito abbreviato, viene rinviato a giudizio, ed è condannato a due anni per i reati di favoreggiamento, falso e abuso in atti d’ufficio, per poi essere assolto in secondo grado nell’aprile 2012. I medici sono accusati di falso ideologico, abuso d’ufficio, abbandono di persona incapace al rifiuto in atti d’ufficio, favoreggiamento, omissione di referto.
I poliziotti sono accusati di lesioni aggravate e abuso di autorità. Dopo tre anni di processo, il 5 giugno 2013 si ha la piena assoluzione per gli agenti penitenziari e per gli infermieri coinvolti. I medici del Pertini sono condannati per omicidio colposo. Il processo d’appello, il 31 ottobre 2014, conferma l’assoluzione per tutti per insufficienza di prove. A gennaio del 2015 i giudici della Corte d’appello di Roma depositano le motivazioni della loro sentenza, ma sostengono la possibilità di svolgere nuove indagini; per questo, due mesi più tardi i legali della famiglia Cucchi e la procura di Roma depositano il ricorso in Cassazione contro la sentenza di ottobre.
A dicembre la Cassazione accoglie il ricorso, annulla le assoluzioni dei medici ma conferma quelle dei tre agenti di polizia penitenziaria. Viene chiesta una nuova perizia medico legale per stabilire se Stefano abbia subito percosse dai carabinieri e se ci sia stata una “corretta ricostruzione dei fatti”.
La lotta di Ilaria Cucchi
Nell’aprile 2016 Ilaria Cucchi lancia la petizione per chiedere che il Parlamento e il governo approvino il reato di tortura in Italia, ottenendo più di 200 mila firme in pochi giorni.
L’Italia ha prima di tutto bisogno di una crescita culturale oltre che di una legge sulla tortura – commenta l’avvocato Fabio Anselmo, che fin dal primo giorno ha assistito i Cucchi – Una legge di questo tipo lascia freddi gli italiani, la consapevolezza necessaria riguarda il rispetto fondamentale dell’essere umano. In Italia il sistema di comunicazione è fallimentare, definisce la famiglia Cucchi e noi legali il partito dell’antipolizia, quando chi rispetta le istituzioni e la polizia sono proprio queste famiglie. Vi è un sistema di scarsissima sensibilizzazione popolare per quello che è il tema delle condizioni di vita dei detenuti nelle nostre carceri. C’è bisogno di crescita e di conoscere, perché i casi Cucchi e Aldrovandi ci hanno dimostrato che può succedere a chiunque.
A ottobre del 2016 i periti nominati dal gip, Elvira Tamburelli, sostengono che la morte di Cucchi sia stata causata da “un’epilessia in un uomo con patologia epilettica di durata pluriennale, in trattamento con farmaci anti epilettici”.
Il processo bis
Nel gennaio 2017 la procura di Roma chiede il processo a carico dei tre carabinieri: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, con nuovi capi d’accusa, ovvero l’omicidio preterintenzionale pluriaggravato dai futili motivi e dalla minorata difesa della vittima, abuso di autorità contro arrestati, falso ideologico in atto pubblico, calunnia.
Ricordo gli insulti subiti da questa famiglia, è stata una maratona incredibile – dice ancora Anselmo – È stata una delle prove più dure della mia carriera professionale. Seguire sette anni di processo sapendo che avremmo dovuto perderlo perché non volevamo barattare una mezza verità. Le mezze verità a noi non servono. Abbiamo lavorato per rovesciare il caso, per impedire che ci fosse dato un contentino.
Un mese dopo la procura romana chiede il rinvio a giudizi per cinque carabinieri: i tre accusati di omicidio e due, Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi, a cui vengono contestati i reati di calunnia e falso.
La svolta
L’11 ottobre 2018 Francesco Tedesco, uno dei cinque carabinieri imputati nel processo bis di primo grado, ha confessato e accusato gli altri colleghi del pestaggio di Cucchi. Il carabiniere, inoltre, nella sua deposizione, ha rivelato l’esistenza di una nota scritta da lui stesso in cui spiegava che cosa era successo a Stefano Cucchi, che sarebbe stata inviata alla stazione Appia dei carabinieri e sarebbe stata fatta sparire. L’avvocato di Tedesco, Eugenio Pini, ha detto:
Il mio assistito si è lanciato contro i colleghi per allontanarli da Stefano Cucchi, lo ha soccorso e lo ha poi difeso. Tedesco ha denunciato la condotta al suo superiore ed anche alla Procura della Repubblica, scrivendo una annotazione di servizio che però non è mai giunta in Procura, e poi è stato costretto al silenzio contro la sua volontà. Le sue parole sono un riscatto per l’Arma perché è stato un carabiniere a soccorrere Cucchi, a denunciare il fatto nell’immediatezza e a aver fatto definitivamente luce nel processo.
Il 14 novembre 2019 Di Bernardo e D’Alessandro vengono condannati a 12 anni per omicidio preterintenzionale. Tedesco a 2 anni per falso.
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