Scusate, figli miei, ma voglio morire. Non voglio impazzire, fatemi addormentare senza risvegliarmi“.

Queste sono le parole che una donna di 70 anni ha scritto, con mano incerta, su una pagina della Settimana Enigmistica, mentre era ricoverata in terapia intensiva nel reparto Covid dell’Ospedale Vannini al Casilino, Roma. 20 giorni dopo quel testamento ideale vergato fra i cruciverba, quella donna è morta, senza poter salutare nessuno dei suoi cari, come avviene, ormai da quasi un anno a questa parte, a chi entra nelle terapie intensive dei reparti Covid degli ospedali italiani e non riesce più a uscirne.

Così i pazienti lasciano messaggi, parole, con cui danno l’addio ai loro affetti, o con cui, semplicemente, cercano di accorciare quelle maledette distanze che invece dobbiamo mantenere tutti, nella speranza di fare ritorno a casa. I reparti Covid sono come bunker, raccontano i medici, i protocolli anticontagio non ammettono deroghe, e chi si trova ricoverato viene lasciato, solo, ad affrontare la paura, oltre che la malattia. Con il personale medico sempre accanto, ovvio, ma senza il supporto della famiglia.

Lei, la donna che ha scritto quel messaggio straziante, così potente nel suo dolore, non rispondeva né all’ossigeno terapia né ai farmaci, e non ha voluto sottoporsi al casco “Cpap” con l’ossigeno a pressione positiva. Si è spenta poche ore dopo, non prima di aver dato il suo addio ai figli.

Così, la Settimana Enigmistica diventa la nuova bottiglia in cui lasciare messaggi, scrivere pensieri; il personale sanitario che ha ritrovato quel messaggio, sul giornalino lasciato aperto sul bordo del letto, lo ha inserito nella sacca degli effetti personali, perché i figli potessero avere la certezza, casomai ce ne fosse stato il bisogno, che l’ultimo pensiero della loro mamma era stato per loro.

Francesca Alfonsi, psicologa e psicoterapeuta delle Terapie intensive dell’ospedale, impegnata nel ruolo di mediatrice della comunicazione tra i pazienti e i loro familiari, racconta a Repubblica decine di casi del genere dal policlinico di Tor Vergata; ascolta e raccoglie le testimonianze, i racconti, le storie di quei pazienti spauriti che arrivano in reparto, riporta tutto sulle loro condizioni ai familiari fuori, in un filo rosso continuo che non può spezzare. La sua è l’unica figura in grado di eliminare, almeno per un po’, le pareti di quel bunker.

Fra i messaggi più dolorosi che riporta, quello di una ragazza ventisettenne al padre cinquantenne che, ormai stanco, rifiutava di essere intubato.

Papà non puoi mollare adesso, io mi devo ancora sposare, devi portarmi tu all’altare. Mia sorella deve laurearsi. Fatti intubare, fallo per noi, non puoi negarti questa possibilità.

Un uomo di 55 anni, poco prima d morire, le sussurra queste parole:

Dica a mia moglie che in camera da letto, dentro al primo cassetto del mio armadio, c’è una lettera per lei.

Un testamento con i dati dei conti correnti bancari, e tutte le direttive di ordine pratico per la vita futura della famiglia, scritto poco prima del ricovero.

Nonno sbrigati a tornare perché come ci spingi tu sull’altalena non ci spinge nessuno.

Scrive un nipotino nella speranza di riabbracciare il nonno. Mentre una ragazza che si appresta a discutere la sua tesi di laurea, dedicata al padre scomparso a marzo a 51 anni, scrive

Solo in questo modo posso restituirgli il regalo che mi ha fatto consentendomi di poter studiare.

C’è un mondo, nei reparti Covid, fatti di un’umanità eterogenea: c’è quella che lotta, che combatte, che morde la vita, e quella che invece si arrende, perché stanca, affranta, stremata. Entrambe meritano rispetto. Ciascuno di quei pazienti, però, ha certamente un punto in comune: amano tutti qualcuno, là fuori. E a volte si sentono in dovere di chiedere perdono per aver mollato, come testimoniano le parole di quest’uomo:

Vi ho amati più di ogni altra cosa al mondo, ma sono veramente stanco e non ce la faccio più.

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