28 maggio 1974, Piazza della Loggia, Brescia, una delle piazze principali della città, la piàsa ècia, per i bresciani. Alle 10 e 12, mentre è in corso una manifestazione antifascista di sindacati e lavoratori organizzata per protestare contro una serie di attentati avvenuti nella zona, un ordigno viene fatto esplodere in un contenitore della spazzatura. Il bilancio è di otto morti e di circa cento feriti.

Sono anni difficili, quelli, per il nostro Paese, gli “anni di piombo” segnati da un clima di estremismo politico che sfocerà in diversi atti terroristici, a partire dall’attentato di Piazza Fontana del ’69 per terminare con la strage alla stazione di Bologna, nel 1980.

Il giorno prima dell’attacco in Piazza della Loggia un messaggio dell’Ordine nero-Gruppo Anno zero-Briexien Gau diretto a vari quotidiani bresciani aveva anticipato attentati contro esercizi pubblici, nell’atto, come si legge, anche di ricordare la morte di un giovane bresciano, Silvio Ferrari, militante in formazioni extraparlamentari di estrema destra, ucciso qualche giorno prima dallo scoppio di una bomba trasportata sulla sua Vespa.

Quel fatto aveva destato particolare commozione in tutta Brescia, spingendo tuttavia anche a pensare che attentati e aggressioni che erano stati frequenti in quei giorni contro scuole e sedi di partiti di sinistra e organizzazioni sindacali avessero posto la città al centro di una “manovra eversiva” per contrastare cambiamenti sociali progressisti. Ed era stato proprio questo il motivo per cui sindacalisti e antifascisti avevano indetto la manifestazione del 28 maggio.

Per arrivare alla conclusione del processo giudiziario relativo alla strage ci sono voluti ben 43 anni, cinque fasi istruttorie e tredici fasi di giudizio, con altrettante sentenze, nel corso di tre processi.

Il primo, definito “processo Buzzi”, comincia il 30 marzo 1978, in pieno sequestro Moro, e si conclude, dopo sei giorni di camera di consiglio, in primo grado, con la sentenza del 2 luglio 1979: dei nomi inizialmente rinviati a giudizio per strage – Ermanno Buzzi, estremista di destra, e i fratelli Angelino e Raffaele Papa, a lui legati, ma non impegnati politicamente, oltre ad alcuni giovani della destra bresciana, tra cui Nando Ferrari, Arturo Gussago, Andrea Arcai, Marco De Amici (mentre il giovane neofascista Cesare Ferri viene prosciolto) – solo Buzzi e il reo confesso Angelino Papa vengono condannati.

Al secondo grado, che si apre nel novembre 1981, Buzzi non ci arriva, perché viene assassinato il 13 aprile di quell’anno in carcere da Pierluigi Concutelli, comandante militare del Movimento politico Ordine nuovo, e Mario Tuti, capo del Fronte nazionale rivoluzionario. Con la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Brescia del 2 marzo 1982, tutti gli imputati sono assolti per “non aver commesso il fatto” e l’impianto accusatorio della prima istruttoria viene del tutto smantellato.

Una sentenza tuttavia ribaltata in Cassazione, nell’83, per un difetto di motivazione; il giudizio alla Corte di Assise d’Appello di Venezia si conclude con la sentenza del 19 aprile 1985 che assolve tutti gli imputati ma riabilita l’impostazione accusatoria originaria. Anche contro questa sentenza vengono proposti ricorsi per Cassazione, che tuttavia stavolta non vengono presi in considerazione dalla Suprema Corte.

Il secondo processo, detto “processo Ferri”, conta altre tre sentenze riguardanti le posizioni di Cesare Ferri, Alessandro Stepanoff, Sergio Latini, e si conclude con una sentenza che proscioglie tutti gli imputati.

Infine, il terzo processo, o “processo agli ordinovisti” prevede tre sentenze, con due imputati condannati in via definitiva dalla Suprema Corte. Nel 2017 la fine, con la condanna per strage del dirigente di Ordine nuovo Carlo Maria Maggi, ritenuto l’organizzatore dell’eccidio, e Maurizio Tramonte, militante e informatore del SID, per concorso in strage. Non sono mai stati identificati gli esecutori materiali, e non c’è stata nessuna condanna per i depistaggi attuati dal SID, anche se ricostruiti in modo preciso nei vari processi.

Otto, come detto, le vittime di quel giorno, ciascuna con la sua storia e una vita spazzata via brutalmente dagli attentatori.

1. Giulia (Giulietta) Banzi

 

 

Fonte: www.memoria.san.beniculturali.it

Soprannominata “la rossa”, faceva l’insegnante. I suoi ragazzi la ricordarono così:

Ci dava del lei, non il tu sprezzante di altri professori. Lo faceva per rimarcare il suo rispetto, e non si stancava mai di parlare con noi. Poi, nel corso della lezione, quando ci infervoravamo, finiva sempre col darci del tu.

È importante la grammatica, ma soprattutto sapere cosa è stata la rivoluzione francese.

Quella mattina si trovava accanto a Luigi Pinto.

2. Livia Bottardi

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Anche lei insegnante, era cresciuta in una famiglia modesta di origini mantovane, viaggiando con il marito Manlio Milani, sposato nel 1965, il fratello Alberto e altri amici per assistere alle rassegne e ai festival del cinema, di cui era appassionata; anche a Brescia faceva parte del Circolo del Cinema.

Dal 1972 entrò a far parte dell’AIED (Associazione Italiana di Educazione Demografica), per prestare servizio di supporto e dialogo per le donne che volevano avvicinarsi all’educazione demografica. Aveva da poco ottenuto la cattedra alle superiori quando fu uccisa nell’attentato.

3. Clementina Calzari in Trebeschi

Fonte: www.memoria.san.beniculturali.it

Si era diplomata all’Istituto magistrale “V. Gambara” e aveva frequentato la Cattolica a Milano, nonostante il parere avverso del padre; Clementina Calzari vinse il concorso da insegnante nel 1964, mentre ancora frequentava l’università e, nel 1973, entrò di ruolo all’Istituto magistrale “V. Gambara”, dopo aver vinto anche il concorso di insegnante per le superiori.

Nei primi del novembre 1967 sposò Alberto Trebeschi, e nel 1972 nacque il figlio Giorgio.

4. Alberto Trebeschi

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Laureato in Fisica, ottenne la catteda all’ITIS “Castelli” nel 1966; due anni prima, invece, si era iscritto al PCI, da cui si allontanò per poi riavvicinarsi nel 1970.

Nel novembre 1967 sposò Clementina Clem Calzari con rito civile, senza che nessuno sapesse di questa loro decisione.

5. Euplo Natali

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Originario della provincia di Ancona, Natali si era trasferito a Brescia a 18 anni, svolgendo il servizio militare a Malpensa, nell’Aeronautica, come elettricista, prima di trovare lavoro per la Tubi Togni da cui, nel 1941, venne mandato via per le sue idee antifasciste.

Durante la Resistenza, operò nei Gruppi di azione partigiana e nel dopoguerra diventò amministratore fino al 1948 della sezione del PCI, abbandonando in seguito l’incarico per divergenze con i filostalinisti.

 

6. Luigi Pinto

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Insegnante, era iscritto al sindacato scuola della CGIL. Prima era stato operaio in uno zuccherificio, minatore in Sardegna, fino ai primi incarichi di insegnamento delle Applicazioni tecniche nella scuola media.

Nel settembre del 1973 aveva sposato Ada, una compagna della scuola, anche lei militante comunista. In piazza si trovava accanto a Giulietta Banzi.

7. Bartolomeo Talenti

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Ex calciatore, con un passato nel Mantova e nel Brescia in serie C, archiviato l’agonismo Talenti cominciò a lavorare nell’officina di famiglia che si occupava della produzione di armi.

Negli anni Sessanta si impegnò nell’attività sindacale come iscritto alla FLM, ma non prese mai la tessera del PCI. Il 28 Maggio 1974 si trovava a Brescia per puro caso, visto che doveva controllare la sua situazione contributiva all’INPS, e aveva deciso di unirsi ai manifestanti in quanto democratico e antifascista.

8. Vittorio Zambarda

Fonte: www.memoria.san.beniculturali.it

Zambarda aveva iniziato giovanissomo a lavorare a Salò, in un luogo molto frequentato da fascisti e nazisti, e si mise nei guai proprio con questi ultimi quando asportò il serbatoio di benzina di un’autovettura degli ufficiali delle SS. Nel 1943, inoltre, nascose il fratello Giovanni che si rifiutò di arruolarsi, mentre lui non svolse il servizio militare per motivi di salute.

In questo clima maturò la decisione di iscriversi al PCI dopo la Liberazione.

Era andato in pensione appena due giorni prima della strage, e a Brescia si trovava proprio per perfezionare la pratica di pensionamento. Gli uffici erano chiusi per una manifestazione antifascista alla quale si unì. Venne gravemente ferito dallo scoppio della bomba e, in ospedale, rilasciò una dichiarazione a La Stampa:

Ero in pensione da tre giorni […] Mi trovavo lì, in piazza della Loggia, accanto alla fontanella. All’improvviso l’esplosione, un rumore infernale, il lampo.

Morì il 16 giugno per le ferite riportate.

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