La grande assente al Festival del Cinema di Venezia: le parole di Marina Cuollo

Alla Biennale di Venezia assistiamo all'ennesima scarsa rappresentazione della disabilità; che, anche dove narrata, è sempre sottoposta a stereotipi che fanno male e non contribuiscono a normalizzarne la narrazione.

Dopo l’anno e mezzo difficile il cinema riparte da Venezia, dalla 78esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale, che porterà come sempre star e temi importanti al Lido, eccezion fatta per la disabilità.

Lo denuncia l’attivista Marina Cuollo, contributor di Vanity Fair, che proprio sul magazine scrive un articolo sulle difficoltà di rappresentare in maniera davvero inclusiva le persone con disabilità nel mondo degli audiovisivi.

Da quando scrivo e mi occupo di inclusione – scrive Marina – la rappresentazione delle persone con disabilità nell’audiovisivo è un argomento che mi sta molto a cuore. Per cui con l’arrivo delle grandi manifestazioni cinematografiche, specialmente quelle di grande impatto mediatico, spero sempre di riuscire a scorgere la presenza di persone marginalizzate. Purtroppo le mie speranze sono spesso disattese. Quest’anno infatti il documentario fuori concorso Ezio Bosso – Le cose che restano di Giorgio Verdelli è una delle rare eccezioni che siamo riusciti a incontrare. Di fatto la disabilità al cinema è un grande miraggio.

Snocciola i numeri, Marina, che sono impietosi se si pensa a quanto invece sarebbe importante includere nella narrazione la soggettività delle persone che hanno una disabilità: solo il 3,5% di rappresentazione nella stagione televisiva 2019-20, secondo il GLAAD, l’organizzazione americana nata per contrastare la discriminazione delle persone LGBTQ+ nei media. Ma Marina pone un altro tipo di problematiche, perché, anche laddove si assista a una rappresentazione della disabilità, occorre capire di che tipo di narrazione stiamo parlando.

Molto spesso la disabilità è associata alla malvagità, come il recente film Le streghe, di Robert Zemeckis, ha mostrato.

Un’altra rappresentazione è quella che si potrebbe assimilare al complesso del salvatore bianco, ovviamente rapportato al tema disabilità, che “pone le persone disabili in perenne bisogno di salvataggio. Le trame seguono uno schema ricorrente: i personaggi disabili si autocommiserano e sono amareggiati perché incapaci di adattarsi alla loro disabilità, non si sono mai accettati così come sono. Di conseguenza, trattano la famiglia e gli amici con rabbia e manipolazione. O viceversa è il protagonista disabile a diventare strumento di crescita per le persone che ha intorno, insegnando loro importanti lezioni di vita”.

In questo modo, spiega Cuollo

Queste rappresentazioni suggeriscono che la disabilità è un problema di autoaccettazione, di adattamento emotivo. Il pregiudizio sociale si intromette raramente, e in tal modo si attribuisce la responsabilità di qualsiasi problema direttamente e quasi esclusivamente alla persona disabile.

Altro tema è quello della compensazione, per cui, nelle trame, Dio, la natura o la vita compensano, appunto, la persona con disabilità fornendola di un particolare talento o capacità che la rendono popolare e di successo. Ma tutte queste narrazioni, nel complesso, sono sbagliate, perché ricondotte a una sorta di “eccezionalità” che ovviamente non rappresenta il quotidiano delle persone con disabilità; davvero troppo poco, se si pensa soprattutto a quanto lacunosa sia la rappresentazione in generale.

Avere sempre lo stesso tipo di rappresentazione della disabilità ci dimostra che la narrazione delle nostre storie è quasi sempre affidata a chi quelle storie non le vive sulla propria pelle. È così che il famoso ‘pericolo di un’unica storia’ di Chimamanda Ngozi Adichie prende vita.

Quello che manca oggi, e che vorrei vedere sullo schermo, è la quotidianità delle persone con disabilità, un quotidianità narrata con autenticità, come quella di chiunque altro: famiglie disfunzionali, relazioni tossiche, personalità eccentriche, momenti comici.

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