“Questo è un piccolo passo per l’uomo, un gigantesco passo per l’umanità”: mentre Neil Armstrong pronunciava queste parole muovendo i suoi primi passi sulla Luna, il 21 luglio 1969, l’astronauta Michael Collins, pilota dell’Apollo 11, orbitava attorno al satellite.

Collins è morto il 28 aprile all’età di 90 anni, a causa di un cancro, a Naples, in California. I suoi familiari lo hanno ricordato con un bel messaggio:

Mike ha sempre affrontato le sfide della vita con grazia e umiltà e ha affrontato questa, la sua ultima sfida, allo stesso modo.

Anche Buzz Aldrin, l’altro componente del team che, in pieno periodo di Guerra Fredda, raggiunse per primo la superficie lunare, ha voluto celebrare l’amico e collega, pubblicando in un tweet una foto di loro tre ai tempi proprio dell’allunaggio.

Caro Mike,
Ovunque tu sia stato o sarai, avrai sempre il Fuoco per portarci abilmente verso nuove altezze e verso il futuro. Ci mancherai. Che tu possa riposare in pace.

Come detto, Collins faceva parte dell’equipaggio dell’Apollo 11 che nel 1969 pose fine alla corsa allo spazio tra gli Stati Uniti e la Russia, realizzando la promessa del presidente John Fitzgerald Kennedy di raggiungere lo spazio entro la fine degli anni ’60; seppur si sia avvicinato fino a 69 miglia dalla Luna, non ha mai messo piede sul territorio lunare, a differenza dei colleghi, rimanendo, per tutti gli otto giorni di durata della missione Apollo, nel modulo di comando, Columbia. Tanto che c’è un aneddoto curioso proprio a proposito di questo: pare che la stazione di controllo gli abbia detto

Immagino che tu sia l’unica persona in giro a non avere la copertura televisiva della scena.

Va tutto bene – avrebbe risposto Collins – Non mi dispiace per niente.

Anche durante l’allunaggio vero e proprio, Collins rimase solo per quasi 28 ore, mentre Armstrong e Aldrin completavano la loro ispezione del satellite, prima di riprendere il decollo con il lander lunare. Collins era responsabile del riaggancio delle due navicelle, una responsabilità immensa: se qualcosa fosse andato storto e Aldrin e Armstrong fossero rimasti bloccati sulla superficie lunare, infatti, Collins sarebbe tornato sulla Terra da solo. Per fortuna, però, sappiamo che le cose sono andate diversamente.

Nel corso degli anni le persone gli hanno domandato più volte se non si fosse mai pentito di non aver mai messo piede sulla Luna, ma quella, per Collins, non è mai stata un’opzione percorribile: la sua specialità era quella di pilota del modulo di comando, perciò era consapevole fin dal principio che non sarebbe stato partecipe dell’atterraggio.

So che sarei un bugiardo o uno sciocco se dicessi che ho vissuto il meglio fra i tre dell’Apollo 11, ma posso dire con verità ed equità che sono perfettamente soddisfatto di quello che ho – ha scritto nell’autobiografia del 1974, Carrying the Fire – Questa impresa è stata strutturata per tre uomini, e considero me stesso necessario quanto gli altri due.

Chi era Michael Collins

Nato a Roma nel 1930, figlio di Virginia e del generale americano James L. Collins, Michael si è diplomato all’Accademia Militare degli Stati Uniti nel 1952, unendosi poi all’Air Force, dove è diventato un pilota collaudatore e un pilota di caccia.

Ma è stato il volo di John Glenn, primo americano in orbita intorno alla Terra nel 1962, a convincerlo a cercare un impiego alla NASA, venendo accettato al suo secondo tentativo, nel 1963. La prima missione di Collins fu la Gemini 10 del 1966, una delle missioni a due uomini effettuate in preparazione dei voli sulla Luna, per cui divenne, suo malgrado, famoso: durante una passeggiata nello spazio ha infatti perso la sua macchina fotografica, entrata poi a far parte di quella “spazzatura spaziale” che orbita intorno alla Terra.

Il 9 gennaio 1969 la NASA ha annunciato che Collins, Armstrong e Aldrin sarebbero stati l’equipaggio dell’Apollo 11, compiendo il primo tentativo di sbarco sulla Luna degli Stati Uniti. Dei suoi compagni astronauti dell’Apollo 11, Collins ha detto che erano: “Intelligenti da morire, entrambi, competenti ed esperti, ciascuno a modo suo”. Tuttavia, Collins era solito dire che erano “amabili estranei”, perché il trio non sembra aver mai sviluppato un legame così intenso come gli altri equipaggi.

L’equipaggio dell’Apollo 11 si è addestrato per soli sei mesi prima del lancio, il 16 luglio 1969, dal Kennedy Space Center della Florida. L’insegna della missione – un’aquila che atterra sulla luna con un ramoscello d’ulivo negli artigli – è stata soprattutto una creazione di Collins.

Quando ripenso all’Apollo 11, sono sempre più attratto dal mio ricordo, non della Luna, ma della Terra. Piccola, piccola Terra nel suo piccolo sfondo di velluto nero.

Ha detto in occasione del 50 ° anniversario della missione, nel 2019.

Dopo il rientro dalla missione, l’equipaggio è stato tenuto “nascosto” per diversi giorni in una roulotte, ricevendo, fra gli altri, la visita del presidente Nixon; solo dopo, quando il gruppo è stato ritenuto al sicuro, sono partiti per un tour mondiale, facendo tappa in 25 Paesi in poco più di cinque settimane. Collins ripeteva spesso di essere sorpreso dal fatto che ovunque andassero le persone non dicessero “Beh, finalmente voi americani lo avete fatto”, ma “Bene, finalmente ce l’abbiamo fatta”, includendo quindi l’umanità intera nella loro impresa.

Nonostante i funzionari NASA volessero che Collins continuasse, con il successo dell’Apollo 11 il pilota lasciò l’agenzia governativa per unirsi al Dipartimento di Stato come assistente segretario per gli affari pubblici, andandosene dopo un anno per lavorare allo Smithsonian Institution, dove ha guidato un team responsabile della pianificazione e dell’apertura del National Air and Space Museum, di cui in seguito è diventato direttore. La capsula dell’Apollo 11 è nella collezione del museo insieme a molti degli oggetti personali di Collins di quella missione, tra cui lo spazzolino da denti, il rasoio e un tubetto di crema da barba Old Spice.

Oltre alla sua autobiografia, Collins ha scritto un libro sulla sua esperienza per i lettori più giovani, Flying to the Moon: An Astronaut’s Story, spendendo parole, in una prefazione al libro del 1994, sull’esplorazione dello spazio e in particolare di Marte.

Sono troppo vecchio per volare su Marte e me ne pento. Ma penso ancora di essere stato molto, molto fortunato. Sono nato ai tempi dei biplani e di Buck Rogers, ho imparato a volare con i primi jet e ho raggiunto il mio picco quando sono arrivati ​​i razzi lunari. È difficile da battere.

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