Un’altra donna condannata alle frustate per aver difeso il diritto, suo e delle altre, alla libertà e all’autodeterminazione. La storia dell’attivista iraniana Narges Mohammadi è simile, per molti versi, a quella di Nasrin Sotoudeh, di cui vi abbiamo raccontato.

Donne che lottano per rendere reali e alla portata di tutti molti di quei diritti che sono scontati, in gran parte del mondo occidentale, ma che ancora sono chimere in alcuni Paesi. Mohammadi, ad esempio, è una fervida sostenitrice della campagna contro la pena di morte e vicepresidente del centro per i difensori dei diritti umani in Iran.

La sua storia di attivismo va di pari passo con le ingiustizie subite dal sistema: un primo arresto nel maggio 2015, e una condanna a dieci anni di carcere per aver fondato “un gruppo illegale”, cinque per aver commesso “crimini contro la sicurezza nazionale” e un altro anno per aver diffuso “propaganda contro il sistema”. A pesare come prova sulla decisione del tribunale le interviste rilasciate da Mohammadi ai media internazionali e l’incontro, nel marzo del 2014, con l’Alta rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

Narges Mohammadi era già stata condannata nel 2012 a sei anni di carcere, ma a causa delle sue precarie condizioni di salute –  soffre di embolia polmonare e un disturbo neurologico che le provoca convulsioni e paralisi parziale temporanea – era stata presto rimessa in libertà; nel 2016, invece, è arrivata la nuova condanna, da parte della Corte d’Appello di Teheran, con le accuse di adesione al Centro dei difensori dei diritti umani, collusione contro la sicurezza nazionale e propaganda contro lo stato.

L’8 ottobre del 2020 Mohammadi ha lasciato la prigione di Zanjan, in uno stato di salute decisamente peggiorato, ma appena un anno dopo, il 16 novembre 2021, è stata arrestata di nuovo a Karaj, nella provincia dell’Alborz, mentre partecipava alla commemorazione di Ebrahim Ketabdar, ucciso dalle forze di sicurezza durante le proteste nazionali del novembre 2019, durante le quali lei stessa, assieme ad altre detenute della sezione femminile, tra cui Atena Daemi, Mojgan Keshavarz, Monireh Arabshahi, Saba Kordafshari, Samaneh Norouz Moradi, Soheila Hijab e Yasaman Aryani, hanno organizzato un sit-in di protesta. Condotta nel carcere di Evin, nella capitale, sta scontando la pena inflittale già nel maggio del 2021, proprio in virtù di quelle proteste del 2019: due anni e mezzo e la pena aggiuntiva di 80 frustate, per “propaganda contro il sistema”.

La sua sola “colpa” è stata di aver chiesto l’abolizione della pena di morte, aver parlato di diritti umani con rappresentanti di istituzioni internazionali e di aver preso parte a manifestazioni pacifiche per i diritti delle donne.

Amnesty International si sta occupando del suo caso, e chiede a gran voce la liberazione dell’attivista, che ha esercitato esclusivamente il suo diritto alla libertà di espressione e di assemblea.

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