Perdere un figlio alla nascita è ovviamente un’esperienza devastante per ogni genitore, e purtroppo un evento tutt’altro che raro, anche se ovviamente occorre distinguere tra varie circostanze: fino alla ventiquattresima settimana di gravidanza, infatti, si parla di aborto spontaneo, o perdita fetale tardiva, mentre dopo questo termine si parla propriamente di mortalità neonatale (neonati morti entro 28 giorni dalla nascita) e di mortalità neonatale precoce (neonati morti entro 7 giorni dalla nascita).

C’è però da considerare anche il tasso di natimortalità, che riguarda invece i bambini nati morti: anche questo numero, purtroppo, è ancora piuttosto alto, soprattutto in alcune zone del mondo dove le precarie condizioni sanitarie mettono più spesso a repentaglio la vita di madri e figli.

Una prima distinzione: la definizione di “nato morto”

È più complesso di quanto si possa pensare definire un bambino “nato morto” (stillbirth), visto che ogni Paese ha una sua propria definizione, basata sull’età gestazionale e sul peso fetale. In Italia, ad esempio, è definito come “il feto partorito senza segni di vita dopo il 180esimo giorno di amenorrea (>25+5 settimane gestazionali)” (Fonte ISS); in Usa e in Canada vengono ricomprese nella fattispecie le morti fetali a partire dalle 20 settimane di gestazione, in Finlandia da 22 e nel Regno Unito da 24.
Recentemente l’OMS ha raccomandato, in sede di confronto internazionale, di usare il termine per definire il feto partorito o estratto dalla madre, privo di segni vitali, con un’età gestazionale di 28 settimane o più; questa definizione coincide con quella di morte fetale tardiva fornita dall’Internationa Statistical Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death (ICD-10).

Natimortalità: i dati nel mondo

Il tasso di natimortalità è, come definito dall’ISS, “il rapporto tra il numero dei nati morti* (stillbirth) in un dato intervallo di tempo e il totale dei nati (nati morti e nati vivi) nello stesso intervallo di tempo, moltiplicato per mille”.

I dati più recenti sulla natimortalità si riferiscono al 2015, quando i nati morti sono stati circa 2,6 milioni, secondo uno studio effettuato da The Lancet, di cui il 98% nei Paesi a basso e medio reddito; oltre due milioni di morti si sono verificate solo nell’Africa subsahariana, e il 70% della natimortalità si concentra in generale in 10 Paesi, India, Nigeria, Pakistan, Cina, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo, Bangladesh, Indonesia, Tanzania e Niger.

La buona notizia è che la mortalità sotto i 5 anni si è ridotta, a livello globale, di oltre il 50% negli ultimi 25 anni, un successo senza precedenti; di contro, però, la mortalità neonatale ha fatto registrare altri dati: nel 1990 le morti entro i primi 28 giorni di vita erano il 37,4% di quelle registrate entro i primi 5 anni, nel 2016 addirittura il 46%, ragion per cui le politiche internazionali si sono dovute concentrare particolarmente sulla prevenzione della mortalità infantile evitabile.

Per quanto riguarda il nostro Paese, nel 2015 l’Italia ha registrato un tasso di natimortalità pari a 3,3 ogni 1000 nascite, collocandosi perciò tra i Paesi con un tasso medio-basso.

Le cause della natimortalità

La cosa più atroce da pensare è che il 50% circa delle morti in utero registrate nel 2015 siano dipese da cause essenzialmente evitabili: 1,3 milioni di casi di natimortalità sono avvenuti durante il travaglio.

Tra le cause principali di natimortalità figurano le gravidanze che superano le 42 settimane (14% dei nati morti in tutto il mondo), soprattutto in quei Paesi dove l’assistenza ostretrica di emergenza e le politiche sanitarie sono claudicanti; ma fra le ragioni della natimortalità figurano anche le infezioni materne – in particolare nell’Africa subsahariana, dove la malaria durante la gravidanza causa l’8,2% di nati morti complessivi nel mondo e la sifilide il 7,7%.

Fra i fattori di rischio figurano anche l’età avanzata della madre – il 6,7% di natimortalità dipende da questo – o, al contrario, troppo precoce (soprattutto sotto i 16 anni di età), epidemie globali di malattie non trasmissibili, come il diabete, l’ipertensione o l’obesità (rappresentano il 10% dei nati morti). In ultimo, più di 200.000 nati morti nel 2015 (4,7% del totale) sono causati da pre-eclampsia ed eclampsia.

Cosa si può fare per ridurre la natimortalità

Chiaramente la prima e più importante cosa da fare è diffondere, a livello globale, un’assistenza adeguata durante il momento del parto, visto che come detto 1,3 milioni di nati sono morti tra il momento dell’inizio del travaglio e la nascita.

Nei Paesi a reddito elevato il tasso medio di natimortalità a 28 settimane o più di gestazione è di circa 3,5 per 1000 nati, ma ci sono delle variazioni importanti: basti pensare, ad esempio, che in Islanda si parla di 1,3 ogni 1000, in Ucraina di 8,8. Lo stesso vale per il tasso di natimortalità registrato tra il 2000 e il 2015, con otto Paesi che hanno registrato una diminuzione inferiore all’1% e cinque che invece hanno avuto una riduzione superiore al 4%. Ovviamente le famiglie con una condizione socioeconomica sfavorevole rischiano maggiormente di andare incontro alla natimortalità, per questo i determinanti sociali di benessere materno e fetale dovrebbero essere sorvegliati con attenzione in tutti i Paesi a reddito elevato, prevedendo un migliore accesso alle cure e un’assistenza prenatale tempestiva.

 

 

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