Si dibatte tantissimo, soprattutto in questa epoca di smart working come conseguenza obbligata all’emergenza sanitaria mondiale, su quale sia il numero perfetto di ore di lavoro per sfruttare in pieno motivazione e produttività. In ufficio ma anche a casa, dove il tempo del lavoro e quello privato sono diventati fluidi e spesso si confondono.

Mai le ricerche scientifiche portate avanti sul tema dagli esperti hanno risposto che le canoniche 40 ore settimanali, ovvero lavorare cinque giorni su sette per almeno 8 ore al giorno, non sia l’ottimale: anzi, molti studi (tra cui quella del Melbourne Institute, tra i più accreditati) puntano su una riduzione delle ore di lavoro settimanali da 40 a 25 totali. Lavorare tre giorni su sette sarebbe la risposta a chi lamenta mancanza di motivazione, scarsa concentrazione e incapacità di portare a termine i progetti quando lavora a pieno regime.

E questo perché il cervello “regge” dati e li elabora con creatività solo per un certo periodo di tempo. E non certo per 40 ore a settimana, ma per un massimo di 25 ore. Secondo uno studio di vouchercloud condotto su un campione di lavoratori britannici, l’arco di tempo in cui siamo davvero concentrati in una giornata tipo è meno di 3 ore. Per l’esattezza 2 ore e 53 minuti in cui il nostro cervello opera con costanza.

La scienza, gli studi sul cervello e le aree deputate alle produttività hanno ribadito molte volte che lavorare di più non vuol dire lavorare meglio. Anzi, spesso hanno collegato felicità, work life balance (ovvero la capacità di conciliare il tempo personale con quello del lavoro) e produttività a una giornata lavorativa più breve e intensa che dura tra le 3 alle 5 ore quotidiane.

E l’ora perfetta per lavorare, qual è? Le teorie più diffuse sulla produttività spesso dividono il mondo in gruppi di allodole (quelli che lavorano meglio al mattino presto) e gufi (che invece hanno le migliori performance la notte) ma il mondo è molto più sfaccettato di così. Uno studio congiunto delle università di Monash e Granada ha puntualizzato che molto spesso il cervello e la sua capacità di rimanere focalizzato su una task è legato alla stagionalità: un’analisi compiuta su 500 studenti inglesi ha rivelato che in inverno sono le fasce orarie dopo pranzo (intorno alle 13.30) quelle più produttive in assoluto perché il cervello tende a sfruttare le ultime ore di luce con più entusiasmo.

Capovolgendo, di fatto, lo stereotipo secondo cui dopo pranzo ci si dedichi al pisolino rigenerante e non al lavoro duro.

Dal punto di vista legislativo si sta già facendo qualcosa anche in Italia, in supporto anche ai non occupati e all’economia: come riporta Morning Future, a gennaio 2020 è stata depositata una proposta di legge che prevede un abbassamento delle ore lavorative settimanali in modo tale da alleggerire i contratti e permettere una ridistribuzione del lavoro. La logica di questa proposta di legge è far lavorare più persone per meno ore (e con stipendio adeguato), permettendo a tutti l’accesso al mondo del lavoro. Che sia una delle soluzioni della crisi economica in corso?

Di certo si presta bene alla teoria sulla produttività che prevede meno ore di lavoro settimanali per rendere meglio da un punto di vista professionale.

Smart working e produttività, come si concilia col bisogno di lavorare meno (e meglio)

Lavorare da casa è stato per molto tempo una chimera da inseguire, soprattutto da chi in ufficio passava molte ore al giorno. L’idea romantica che lavorare in remoto significhi lavorare meno è stata disillusa dal fatto che, a tutti gli effetti, la maggior parte di chi deve portare a termine progetti e riunioni dal tavolo della sala da pranzo lo fa con maggiore difficoltà.

Figli a casa, vita privata e difficoltà logistiche non aiutano a lavorare bene, anche se con i piedi nelle pantofole. Un discorso che spesso esonda nel dibattito sulle differenze di genere: sono le donne che, a lungo termine, tendono a patire di più il passaggio da ufficio ad ufficio in casa. Ma hanno anche un plus da non sottovalutare: sono sempre loro quelle che potrebbero sfruttare i bioritmi cerebrali ma anche quelli legati ai flussi ormonali (period power) per sfruttare davvero ogni briciolo di produttività.

In generale la combinazione smart working e produttività può avere un finale positivo. Questo perché le stime, come quelle riportate dal Il Sole 24 ore che riprende un sondaggio di Aidp (Associazione italiana dei direttori del personale) di buono questo nuovo assetto ha una maggiore ottimizzazione del tempo. E quindi anche una risposta in termini di produttività: tra i vantaggi segnalati dagli intervistati ci sono quelli del risparmio di tempo e costi di spostamento per i lavoratori per un 69% ma anche una maggiore soddisfazione rispetto al work-life balance (64%). In tanti hanno riscontrato un aumento della responsabilità individuale che però ha come contraltare la perdita delle relazioni sociali, la mancanza di separazione tra ambiente lavorativo e privato e il rischio di un sovraccarico di lavoro per il 21% del totale.

L’ultimo punto potrebbe essere risolto facilmente incrociando gli studi psicologici sulla produttività con quelli dei lavoratori agili. Perché lavorare meno fa rima con lavorare meglio, anche in smart working.

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