"Perdonatemi, mamma e papà, se potete": la lettera di Michele, 30 anni, suicida per colpa del precariato

Quando un'anima è troppo sensibile per vivere nella società odierna, accadono cose come questa accaduta a Michele, un 30enne di Udine che ha posto fine alla sua vita per colpa del precariato.

Il 31 gennaio 2017 ha visto un altro atto folle e disperato, questa volta da parte di Michele, un 30enne di Udine che, ormai stanco della sua incertezza socioeconomica, del precariato e della paura di vivere nel dubbio di un futuro migliore, ha posto fine alla sua vita. Prima di suicidarsi però Michele ha lasciato ai suoi genitori una lettera: una lettera lucida, scritta con cura e con un italiano che dimostra cultura, una profonda riflessione sulla sua condizione, sul presente e sul futuro dei giovani.

I genitori di Michele, distrutti dal dolore, hanno deciso di denunciare questa condizione, dando voce a quanto lasciato scritto dal figlio e lo hanno fatto rendendo pubblica la sua lettera, di cui noi oggi vogliamo mostrarvi i pezzi più significativi.

“Sono stufo – dice Michele – sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse.”

Sono parole piene di speranza gettata via, quelle di Michele, che ormai si sente preso in giro:

“Sono stanco di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.”

Michele voleva solo il diritto di vivere in un mondo pieno di opportunità, di amore sincero, di un lavoro stabile che gli permettesse di vivere dignitosamente… ma questo, purtroppo, non è mai accaduto:

“Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.”

Il 30enne lancia poi un messaggio ai giovani che, come lui, vivono la loro vita con la speranza di un futuro migliore rispetto al presente che stanno vivendo. Ma le parole che rivolge loro non sono tenere perché specificano una realtà immensamente cruda a cui lui non vuole assistere:

“Le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo.”

Nelle parole di Michele traspare tutta l’amarezza causata dall’essersi sentito invisibile in una società che, al contrario, avrebbe dovuto accoglierlo a braccia aperte cercando di donargli un posto nel mondo, senza rifiuti, senza continue batoste perché no… non si vive con i “no”:

“Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare.”

L’uomo afferma che, in tutta la sua vita, non ha potuto cambiare la situazione ma… una cosa sì, l’ha potuta fare: porre fine a questa ingiustizia. L’unico modo che ha trovato è stato il più crudele di tutti. Perché vivere soffrendo? Pensa Michele; non sono obbligato a farlo:

“Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno.”

Secondo Michele, nessuno lo ha obbligato a nascere, di conseguenza nessuno ha potuto obbligarlo a vivere; lui ha visto la sua libertà solo in questo:

“Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie.”

La tristezza dell’uomo per non essere stato accolto dalla società lo ha deluso, amareggiato, lo ha fatto soffrire. Non ha voluto più imporre la sua presenza, quindi ha deciso di porre fine alla sua esistenza, alla sua essenza:

“Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.”

E poi quelle parole struggenti, che sono arrivate dritte al cuore dei suoi genitori:

Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene.”

Infine, il 30enne saluta i suoi amici, chiedendo loro di non portargli rancore:

“Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento.”

In una società moderna e avanzata come dovrebbe essere la nostra, o quantomeno come è considerata, si può morire per colpa del precariato? A quanto pare, purtroppo… sì! La nostra community si stringe al dolore della famiglia e degli amici di Michele. Nel frattempo, vi lasciamo la lettera completa pubblicata sul Messaggero Veneto che potrete trovare qui.

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