Accade che il ministro degli Esteri italiano, tornato dalle vacanze con la pelle evidentemente abbronzata, diventi oggetto di meme e battute via social e decida di raccogliere le più belle in un post Instagram dal chiaro intento ironico.

Il post di Luigi Di Maio, per quanto certamente condiviso con i followers del suo account in buona fede e senza alcun intento discriminatorio, anzi semmai come prova di una certa autoironia, non è però immune da problemi, in primis quello, davvero poco valutato seppur così radicato nella nostra cultura, dell’appropriazione culturale.

Perché quello del ministro è evidentemente un esempio di blackface, inconsapevole, certo, non dettato, come detto, da voluti intenti razzisti, ma ciò non toglie che ci troviamo di fronte a una questione che difficilmente i bianchi comprendono e accettano in quanto tale, ovvero come manifestazione di una certa discriminazione “dell’altro”.

Perché la blackface è da considerarsi, a tutti gli effetti, razzista?

Negli Stati Uniti post guerra civile un genere di spettacoli come quello dei Ministrel Show, in cui attori bianchi truccavano le proprie facce di nero per interpretare sketch profondamente ed esplicitamente razzisti, erano del tutto normali, in un contesto storico e culturale che aveva visto la schiavitù abolita solo nell’ultimo anno di guerra di Secessione, il 1865, ma continuava a vedere gli afroamericani linciati e discriminati, grazie anche all’approvazione di leggi liberticide, come le Jim Crow Laws, che prendevano il nome da Jim Crow, un personaggio caricaturale interpretato proprio da Thomas Rice, un attore bianco che incarnò a lungo il prototipo di blackface.

Lo erano perché, sostanzialmente, i neri non avevano voce in capitolo, non potevano ribellarsi a questa discriminazione e l’egemonia totale era nelle mani dei bianchi, almeno fino a quando il Movimento per i Diritti Civili degli afroamericani non prese coscienza della necessità di porre fine a tutte le ingiustizie perpetrate sul popolo nero, cominciando quella serie di lotte che si sarebbero protratte per tutti gli anni ’70 (e che, il movimento Black Livel Matter insegna, non sono in realtà mai finite).

Oggi, invece, dovrebbe essere piuttosto chiara la matrice razzista che era alla base dei Ministrel Show, volti a evidenziare le difficoltà linguistiche e le presunte arretratezze culturali degli afroamericani e, soprattutto, a deridere quella parte di umanità che era da sempre stata soggiogata e sottoposta al potere bianco. Per questo sorprende notare quanto, invece, l’idea di incappare in una blackface non sia neanche lontanamente presa in considerazione da chi ha realizzato questi meme, nemmeno da Di Maio, che li ha ingenuamente riportati.

Molti si risentiranno affermando che “il politically correct ha ammazzato l’ironia” o che “a causa sua non si può più dire niente”, ma qui non c’entra, in realtà, né l’uno, né l’altra: perché se una cosa, come un meme sui social, può far sorridere, da bianchi dovremmo avere anche la responsabilità di comprendere cosa la blackface rappresenti storicamente per una persona nera, e di conseguenza che abbiamo sempre gestito il mondo, il linguaggio e l’iconografia secondo un’ottica bianca, quella dei dominatori, la stessa che storicamente, a lungo, ha spesso coscientemente umiliato le minoranze.

Significativo il concetto espresso dalla scrittrice Espérance Hakuzwimana in una story pubblicata su Instagram:

Fonte: instagram @unavitadistendhal

Perché il razzismo istituzionalizzato degli Stati Uniti diventa un problema che sta a cuore a tutti, indipendentemente dal fatto di essere neri o no, ma in una situazione del genere tutto sembra assolutamente normale, non discriminatorio, ed è troppo da “politically correct” far notare che parliamo di blackface?

Se sei bianco e sembri nero le battute razziste si possono fare.

Dice lei. Anche Irene Facheris sottolinea il problema ignorato alla base del post di Di Maio.

Fonte: instagram @cimdrp

Insomma, le cose stanno così: i bianchi – ma più in generale le maggioranze, visto che il discorso, parlando appunto di appropriazione culturale, si potrebbe applicare a tutte le minoranze, etniche, sessuali o religiose – si sono presi il permesso, e il diritto, di ridere di un qualcosa che non possono capire, non avendo mai provato, sulla propria pelle, cosa significa essere segregati, separati, etichettati e considerati “diversi” o “inferiori”.

Dipingersi la faccia di nero senza trovarci nulla di offensivo diventa normale e moralmente accettabile nella misura in cui, finito lo sketch, quel colore si lava, e si torna dalla parte di quelli “che comandano”. O, come scrive Oiza Q. Obasuyi su The Vision

Fingersi neri per un giorno, per una festa in maschera o per un talent show risulta essere una presa in giro nei confronti di chi è nero 24 ore su 24, con tutto ciò che ne deriva: da aggressioni verbali o fisiche gravi, a micro-aggressioni giornaliere, luoghi comuni, stereotipi o commenti fuori luogo sulla propria pelle o sulla propria provenienza. È come se essere neri diventasse automaticamente cool, un vezzo di moda, o uno scherzo – almeno per chi può fingere di essere nero per sfizio, per poi lavare via quel colore che, nella realtà, può essere un fattore problematico per la società in cui si vive.

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