Questa volta non hanno alcuna intenzione di arrendersi: le donne afghane stanno resistendo in ogni modo ai talebani, anche a costo di gravi ripercussioni. Sabato 4 settembre hanno cercato di marciare verso l’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul conquistato dai Talebani il 15 agosto scorso. “Non ci metteranno la museruola. Non ci chiuderanno in casa. Non siamo più le donne afghane di vent’anni fa”, dicono: sono una sessantina circa, unite e organizzate, e il loro esempio è seguito dalle donne di altre città, da Herat a Balkh.

Portano il velo, non il Burqa; sanno che i talebani non perdoneranno la ribellione, ma a loro non importa. Non intendono perdere i diritti acquisiti in vent’anni, non intendono rinunciare al lavoro, o al diritto all’istruzione, e hanno scelto, stavolta, di non abbassare la testa.

Mentre molte hanno scelto di lasciare il Paese per trovare un porto sicuro altrove, come la giornalista Beheshta Arghand, la prima ad aver intervistato un leader talebano, tante, anzi tantissime hanno deciso di restare in patria, per combattere.

Fawzia Wahdat è una di loro: la giovane attivista, giornalista, neolaureata in legge, è stata tra i giudici della Commissione elettorale che doveva vigilare su eventuali brogli. Al Corriere racconta:

I talebani ci aspettavano. Si erano preparati sin da venerdì. Hanno mandato la ‘Badri’, la brigata delle loro truppe scelte migliori. Dovevano disperderci rapidamente. Ma non ci sono riusciti. E hanno dovuto usare la forza.

I video della repressione talebana, delle donne prese a bastonate, dei lacrimogeni e dei gas urticanti lanciati nella loro direzione, hanno fatto il giro del mondo. La furia non ha risparmiato neppure i passanti che si sono uniti a loro nelle marce pacifiche di protesta; anche la violenza dei talebani, però, non le ferma. “Libertà. Libertà”, gridano, mentre reclamano il diritto a occupare ruoli di responsabilità nella società.

Abbiamo cominciato e non intendiamo fermarci – aggiunge Fawzia –  Cercheremo di mobilitarci ogni giorno, o comunque almeno un paio di volte la settimana, faremo presidi, senza tregua, in più località contemporaneamente. Vogliamo far sapere agli afghani che non è più il momento di subire senza reagire e cerchiamo la solidarietà internazionale. Tante tra noi sono pronte a mettersi in gioco, anche a pagare con la vita.

Qualcuna, come detto, ha accettato di piegarsi al volere dei talebani, altre sono fuggite per paura di ritorsioni; ma sono, in proporzione, molto poche rispetto a quelle che questa volta hanno deciso di prendere in mano la propria vita e di ribellarsi al regime. E le donne che protestano, in fondo, lo stanno facendo anche per loro, affinché la popolazione femminile non torni a vivere, rassegnata, secondo la visione oscurantista della sharia, la legge islamica interpretata dai talebani in maniera assolutamente restrittiva, nonostante le promesse di concedere dei diritti alle donne.

Sono la voce delle donne che non sono in grado di parlare – dice al Guardian la studentessa ventiquattrenne Farhat Popalzai – Pensano che questo sia un Paese di uomini ma non lo è, è anche un Paese di donne.

Nel frattempo Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha convocato per il 13 settembre una conferenza sulla crisi umanitaria in Afghanistan; c’è bisogno che tutti gli Stati membri facciano qualcosa, anche e soprattutto per le donne che stanno combattendo da sole.

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