Il sequestro e la morte atroce di Cristina Mazzotti a 18 anni: nuovo processo 49 anni dopo

Era il 1° luglio 1975 quando Cristina Mazzotti, 18 anni, fu rapita mentre tornava dalla festa di diploma. Morì dopo 28 giorni per le condizioni disumane del sequestro rinchiusa in una botola e per il mix di farmaci sedativi ed eccitanti somministri dai suoi carcerieri. Mazzotti fu la prima donna sequestrata nel Nord Italia e la prima a essere uccisa durante il sequestro.

Dopo 49 anni, si riapre il processo per il sequestro e l’omicidio di Cristina Mazzotti. La diciottenne, rapita il 1° luglio 1975 mentre faceva ritorno alla villa di famiglia a Eupilio, in provincia di Como, dopo aver festeggiato il diploma, morì per le condizioni disumane del sequestro dopo 28 giorni passati in una botola in cui non poteva neppure stare in piedi.

Alla sbarra, accusati di omicidio volontario aggravato come conseguenza di sequestro di persona, 49 anni dopo ci sono Giuseppe Calabrò, Antonio Talia, Giuseppe Morabito e Demetrio Latella, tutti legati alla criminalità calabrese ma residenti in Lombardia, che sarebbero secondo le accuse gli esecutori del sequestro: coloro cioè che prelevarono la ragazza dall’auto su cui stava viaggiando con due amici e la consegnarono a coloro che la tennero sotto sequestro nelle settimane successive.

Al tempo, per il sequestro e la morte di Cristina Mazzotti furono condannate 13 persone (4 all’ergastolo), tra centralinisti, custodi e complici vari.

Perché il caso Cristina Mazzotti riapre dopo 49 anni?

Partiamo dall’inizio.

Il rapimento di Cristina Mazzotti

Cristina Mazzotti viveva a Milano con la famiglia, benestante ma non tanto ricca quanto i sequestratori pensavano. Il padre Elios Mazzotti era un noto industriale nel settore dei cereali.

Mentre rientrava dalla festa di diploma diretta alla villa di famiglia nel comasco, un’Alfa Romeo Giulia e una Fiat 125 fermarono la Mini Minor su cui Mazzotti viaggiava con due amici. I rapitori, dopo aver identificato la ragazza, squarciato le gomme e immobilizzato i compagni, portarono la giovane in una cascina a Castelletto Sopra Ticino, in provincia di Novara, dove fu rinchiusa in una botola nel garage, in uno spazio di un metro e mezzo per due, talmente angusto che Mazzotti non poteva né deambulare né stare in piedi.

Le condizioni del sequestro e la morte di Mazzotti

A Cristina Mazzotti furono somministrate dosi massicce di farmaci: sedativi, per mantenerla calma, ed eccitanti, per renderla “vigile” nei momenti di contatto con la famiglia. Questo almeno dichiararono i sequestratori a processo. Cristina Mazzotti morì dopo quasi un mese di sequesto. Secondo l’accusa, la morte fu causata dall’impossibilità di muoversi e dalla combinazione di farmaci. Il suo corpo fu ritrovato il 24 agosto 1975 in avanzato stato di decomposizione, segnando una delle tragedie più sconvolgenti nella storia dei sequestri di persona in Italia.

Il riscatto

Nel tentativo disperato di riavere la figlia, la famiglia pagò un cospicuo riscatto per l’epoca, quando però la giovane era già morta. Ma furono proprio quei soldi a permettere di risalire ai responsabili, grazie alla segnalazione del direttore di una banca in Svizzera che aveva notato un’operazione sospetta .

Libero Ballinari, noto allora come un piccolo criminale, fu fermato a Lugano e fornì le prime informazioni sulla banda mista di lombardi e calabresi, di cui facevano parte Antonino Giacobbe, affiliato alla ‘ndrangheta, e Giuliano Angelini.

La riapertura del processo per la morte di Cristina Mazzotti

Come si è arrivati ad accusare oggi Giuseppe Calabrò, Antonio Talia, Giuseppe Morabito e Demetrio Latella? L’impronta di una mano ricondotta a Latella sulla Mini Minor fu il primo elemento, trovato solo nel 2007. Da lì, la confessione spontanea di Latella che avrebbe ammesso di aver rapito la ragazza e menzionato i complici Talia e Calabrò come complici. Morabito, accusato di aver messo a disposizione una delle auto usate dai rapitori, è stato coinvolto nelle indagini successivamente.

Il Pm che seguiva le indagini chiese però al tempo l’archiviazione del caso poiché il reato di sequestro di persona era già caduto in prescrizione, e che sarebbe successo altrettanto anche per quello di omicidio se fosse stata riconosciuta anche solo un attenuante agli imputati.
L’indagine è stata riaperta grazie all‘avvocato Fabio Repici, che nel 2021 ha segnalato una sentenza della Corte di Cassazione che stabilisce che non c’è prescrizione, neppure in presenza di attenuanti, per l’omicidio volontario. L’indagine è passata dalla procura di Torino a a quella di Milano per competenza territoriale, finché lo scorso anni la gup (giudice dell’udienza preliminare) di Milano ha autorizzato l’avvio del processo iniziato mercoledì 25 settembre 2024.

La riapertura del caso rappresenta non solo un passo avanti nella ricerca della verità per la famiglia Mazzotti, che da anni lotta per ottenere giustizia, ma anche un momento simbolico per l’Italia intera. Negli anni ’70, l’Italia era sconvolta da numerosi sequestri di persone ricche, rapite a scopo di estorsione. Questi crimini erano un mezzo con cui la ‘ndrangheta finanziava le proprie attività criminali, e il caso Mazzotti si distinse per la crudeltà con cui la giovane fu trattata e la tragica fine a cui ella andò incontro.

Fonti principali: Ansa, Il Post

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