L’odio per le donne è una piaga culturale che deve essere estirpata. Ma quando la misoginia è di Stato ciò che succede è esponenzialmente aberrante, perché tollerato dalla legge, in contrasto con qualunque principio relativo ai diritti umani. È quello che sta accadendo nelle Filippine, dove il presidente Rodrigo Duterte ha dato un ordine choc ai soldati. Duterte ha infatti autorizzato a sparare alle “donne ribelli” direttamente nella vagina, e ha argomentato spiegando che esse

senza la vagina sono inutili.

È accaduto neppure una settimana fa, mentre Duterte ha pronunciato un discorso di fronte a 200 soldati. Le “ribelli” fanno parte del movimento comunista impegnato nel Paese in azioni di guerra civile. Come spiega Tpi, fin dal suo insediamento nel 2016, Duterte sembrava essere giunto a un compromesso, firmando una serie di negoziati di pace. Ma nel 2017 tutto è cambiato, e in seguito a nuove azioni di guerriglia, ha definito i comunisti «terroristi» e di fatto ha gettato alle ortiche il complesso processo di pace che sembrava ben avviato.

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E mentre l’Osservatorio per i Diritti Umani ha spiegato che si tratta solo dell’ultima delle dichiarazioni misogine del presidente Duterte, la parlamentare filippina Emmi de Jesus ha aggiunto come queste frasi siano pericolose, perché spingono a commettere «sanguinose violazioni dei diritti umani e gravi abusi del diritto internazionale umanitario» soprattutto contro le donne.

Incoraggia le forze statali – ha chiosato De Jesus, riferendosi al presidente – a commettere violenze sessuali durante i conflitti armati, una violazione del diritto internazionale umanitario.

Tra i precedenti del presidente Duterte, ci sono infatti delle “battute” rivolte allo stupro di una missionaria australiana nel 1989 (disse che era così bella che sarebbe stato uno spreco, avrebbe voluto stuprarla lui stesso), oppure l’incoraggiamento rivolto ai soldati sotto corte marziale a violentare almeno tre donne per essere assolti. O ancora, durante una visita in India del mese scorso, Duterte ha offerto 42 vergini ai turisti indiani che si fossero recati nelle Filippine. Infine, nelle prigioni filippine, si trova una senatrice accusata di corruzione, che invece afferma come Duterte abbia voluto solo ridurla al silenzio, oltre alla diffusione di dettagli imbarazzanti sulla vita privata della donna.

Intanto, la Corte Penale Internazionale aprirà un’indagine a carico di Duterte per presunti crimini attuati durante la sua guerra alla droga, in quanto alcuni fatti indicherebbero come le forze di polizia abbiano compiuto abusi di potere molto violenti nei confronti dei guerriglieri, delle donne in particolare. Tanto che Amnesty International ha parlato di crimini contro l’umanità, se le accuse saranno provate.

La questione è molto grave. Il modo in cui le donne sono viste in alcuni Paesi del mondo mostra come il genere femminile sia molto lontano dalla parità di diritti. In queste parole scioccanti, il possedere una vagina diventa l’unica ragione di un qualche valore, non averla più significa non valere più nulla. Le ondate di machismo non sono una prerogativa filippina, si trovano in un ampio contesto culturale molto diffuse anche nel nostro Occidente. Ma noi non abbiamo una misoginia di Stato, per intenderci quella descritta nel romanzo Il racconto dell’ancella, in cui le donne sono ritenute utili solo per soddisfare appetiti sessuali o per la riproduzione.

Fa paura, perché quando la fiction appare così affine alla realtà, anche se in un Paese molto lontano da noi, tutto l’orrore che abbiamo percepito in quelle pagine appare possibile. La misoginia nelle Filippine non è semplicemente qualcosa di radicato, è appunto una misoginia di Stato, un odio che permette violenze inaudite, non certo semplicemente battute che potremmo definire eufemisticamente infelici.

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