Costretta ad abbandonare la scuola per sposarsi e poi morta di parto in giovanissima età. Questa è la storia di Anna Machaya, originaria dello Zimbabwe, l’ennesima giovane donna obbligata dalla sua famiglia ad un matrimonio precoce. La sua vicenda ha sconvolto il suo Paese ed è stata fortemente condannata dalle Nazioni Unite.

Come riporta il The Guardian, la giovane è morta il 15 luglio in un santuario nella regione orientale del Marange, dove si era recata per partorire. L’uomo che era stata costretta a sposare, Hatirarami Momberume, di 26 anni, è ora accusato dalla polizia di violenza sessuale, mentre i genitori di Anna, Edmore Machaya e Shy Mabika, dovranno rispondere di intralcio alla giustizia e falsificazione di documenti di identità, per nascondere l’età della figlia.

La morte della quindicenne ha causato molta indignazione sia da parte degli abitanti dello Zimbabwe che della comunità internazionale, con numerose organizzazioni per i diritti delle donne che stanno chiedendo a gran voce delle contromisure per proteggere le adolescenti dai predatori sessuali. La Corte costituzionale dello Zimbabwe vieta il matrimonio al di sotto dei 18 anni, ma le Nazioni Unite affermano che è molto probabile che una ragazza su tre si sposi prima di raggiungere quell’età.

Secondo Amnesty International, un quinto dei decessi materni in Zimbabwe si verifica tra le ragazze di età compresa tra 15 e 19 anni. Nel frattempo, la campagna online #justiceformemory, di tendenza su Twitter, ha ricevuto finora più di 92.000 firme. La petizione si prefigge come scopo quello di fermare i matrimoni precoci in Zimbabwe, mettendo in luce il problema delle spose bambine.

Nyaradzayi Gumbonzvanda, ambasciatrice dell’Unione africana da anni impegnata a combattere contro le unioni precoci, ha dichiarato in un’intervista al The Guardian: “Sono arrabbiata e indignata perché lo stupro e il matrimonio infantile non dovrebbero avere posto nella nostra società moderna. Abbiamo tutte le leggi e le conoscenze per prevenirlo. È così doloroso avere la consapevolezza che, come Paese, abbiamo lasciato che questa pratica si inasprisse senza controllo”.

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