Stress da lavoro, la Cassazione: il datore di lavoro deve rispondere per i danni
Storica sentenza della Suprema Corte: la salute psicofisica del lavoratore deve essere prioritaria rispetto a qualsiasi logica produttiva o economica in ogni azienda.
Storica sentenza della Suprema Corte: la salute psicofisica del lavoratore deve essere prioritaria rispetto a qualsiasi logica produttiva o economica in ogni azienda.
Avvertire una sensazione di forte stress a causa del proprio lavoro può essere più che naturale, a volte questo può avvenire per le ragioni più disperate. C’è chi ad esempio lo prova perché sa di avere un contratto in scadenza e non sa se potrà essere rinnovato, ma non mancano le situazioni in cui il dipendente subisce quello che viene definito mobbing, vere e proprie vessazioni da parte di responsabili o colleghi che rendono pesanti non solo le ore trascorse in ufficio ma anche quelle a casa perché ci si sente male solo all’idea di ritornare sul posto poche ore dopo.
Vivere sensazioni simili non può che essere deleterio per la salute, specialmente perché pensare di licenziarsi per questo è l’idea meno praticabile visto che non è così semplice trovare in tempi brevi un altro impiego.
Nonostante tutto, non mancano le persone che scelgono di difendersi in Tribunale dove possono esporre le condizioni negative che sono costretti a dover sopportare. Riuscire ad avere ragione ora però per le vittime può essere più semplice grazie a una sentenza della Cassazione che è destinata a fare storia.
Qualora l’ambiente di lavoro dovesse generare un’eccessiva fonte di stress, è il datore di lavoro a esserne responsabile perché, evidentemente, fino a quel momento, non ha fatto niente di concreto per evitare che questo si verificasse e per garantire il benessere a chi ha assunto.
Tutto è nato da una causa intentata da un dipendente dell’Erap delle Marche, che aveva chiesto un risarcimento per sofferenze psichiche. In primo grado la sua istanza era stata accolta in maniera favorevole, ma l’amministrazione non si era arresa decidendo di impugnare la decisione. I giudici della Corte D’Appello non hanno riscontrato “quel comune intento persecutorio che rappresenta un elemento costitutivo del mobbing“: secondo l0ro i problemi della persona erano dettate da “carenze gestionali e organizzative“.
Il lavoratore non si è però arreso e ha ora ottenuto il ribaltamento della sentenza da parte della Cassazione. I giudici della Suprema Corte hanno fatto riferimento all’articolo 2087 del Codice Civile, secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. L’episodio può essere quindi definito come una violazione contrattuale: il datore di lavoro è ritenuto “responsabile anche senza la presenza di un unificante comportamento vessatorio”, come il mobbing: bastano comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore e condizioni di lavoro stressogene.
Perennemente con la musica in sottofondo e un libro di Flaubert in borsa, amo le grandi città e i temporali. Da bambina volevo diventare una scrittrice di gialli. Collaboro con Roba Da Donne, DireDonna e GravidanzaOnLine.
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