Ormai i social sono tanto utili per intessere relazioni sociali, quanto deleteri per certi usi che alcune persone decidono di farne; parliamo degli hate speech, ad esempio, i discorsi di odio che circolano sui vari network, ma anche di quelle cosiddette challenge che, inspiegabilmente, attraggono una notevole quantità di giovani pur nella loro stupidità o pericolosità.

Così, se da un lato abbiamo chiari esempi confortanti di buon uso dei social, (come quelli di Momo e Raissa o di Aida Diouf, ad esempio), dall’altro, di fronte a trend più controversi che hanno preso piede su Tik Tok, non è strano chiedersi dove stia il confine tra la volontà di sensibilizzazione e la ridicolizzazione.

Chiariamo subito che, ad oggi, gli amministratori di Tik Tok hanno disattivato tutti gli hashtag che riconducono a questo trend, ma fino a poco fa avreste potuto trovarne decine di esempi digitando semplicemente #olocausto, #holocaust, #shoah, che rispettivamente contano 100 mila, 18,2 milioni e 780 mila visualizzazioni, a riprova di quanto la challenge si sia diffusa.

Il trend consiste nel truccarsi il viso per dare l’idea di un volto emaciato e appuntarsi una stella di David o indossare un pigiama a righe per fingersi ebrei vittime della deportazione nei lager; il tutto accompagnato da caption o da frasi che suonano più o meno “Un giorno portarono me e la mia famiglia in un posto strano. Iniziarono a darci delle divise. Eravamo costretti a lavorare e ci davano poco cibo. Un giorno ci costrinsero a entrare in una doccia e..”, oppure “Mi chiamo … e sono morta nel 1941”.

Per capire di che genere di video stiamo parlando, ecco un esempio.

@kitemmuorto

##MaestriDelPoV : sei in un museo e puoi vedere in che modo soo morte le persone.. ⚠️ ##olocausto ##perte ##fyp ##pov

♬ sonido original - editsx._.millsx

Nel caso dei selfie realizzati ad Auschwitz non ci sono dubbi nell’affermare la superficialità che sta alla base, ma come porsi rispetto all’Olocausto che diventa soggetto di un trend da riproporre via social?

I due punti di vista: volontà di sensibilizzare vs trauma porn

I video hanno iniziato a circolare sul social network a fine agosto, seguendo la tendenza del #POV, ovvero del Point Of View, in cui chi guarda è come lo spettatore di una performance, e in molti assicurano non contravvenga al Codice di Condotta della Commissione Europea contro l’incitamento all’odio online, anche se, dal momento in cui Tik Tok ha disattivato gli hashtag, tutta questa certezza non c’è.

Sono molto motivata e affascinata dall’Olocausto e dalla storia della seconda guerra mondiale. Ho dei parenti che erano nei campi di concentramento e in realtà ho incontrato alcuni sopravvissuti del campo di Auschwitz. Volevo diffondere la consapevolezza e condividere con tutti la realtà dietro i campi condividendo la storia di mia nonna ebrea.

Queste sono le parole con cui una delle protagoniste del video ha motivato la scelta di prendere parte al trend; alla base, insomma, almeno per alcuni dei protagonisti, ci sarebbe una chiara volontà di sensibilizzare su un tema tanto complesso e delicato che, comunque, probabilmente è difficile esaurire in una clip di pochi secondi, per di più facilmente fraintendibile.

Betti Guetta, dell’Osservatorio Antisemitismo del CDEC,non sembra apprezzare il trend, come ha spiegato all’Huffington Post:

Ho guardato moltissimi video che ridicolizzano l’Olocausto. Stupisce che molti di questi ragazzi siano giovanissimi. Usano la propria creatività per mettersi in vetrina ed esibire la tragedia umana. Gli psicanalisti concordano: ormai i giovani per colpire e attirare l’attenzione su di sé fanno cose sempre più dissacranti. La linguaccia o il seno che si vedono fanno parte del già visto. E allora? Alzano il livello di provocazione. Basti pensare che abbiamo perfino trovato dei video in cui c’era chi fingeva di essere stato violentato in un campo di concentramento.

Betti Guetta cita una definizione data dalla dottoranda Chloé Meley, in un articolo su Incite Journal, che è quella di trauma porn, ovvero il fascino perverso che alcune persone nei confronti delle disgrazie accadute ad altre.

Un fenomeno, spiega ancora Guetta, diventato pervasivo in un’era digitale in cui non solo si ha la mercificazione del dolore, ma anche la sua svalutazione, tanto da trovarlo irreale.

Ma a essere critica verso il trend è anche la storica Anna Foa, che ha scritto Portico d’Ottavia 13, che racconta del rastrellamento nel ghetto di Roma, il 16 ottobre del 1943.

C’è come una volontà di buttarsi nel male e di sperimentarlo – afferma – Vedo un disperato bisogno di portare la violenza su di sé. Che non rivela soltanto l’incapacità di capire cosa è stato, perché allora basterebbe spiegare, studiare, insegnare. Qui siamo di fronte a qualcosa che rivela una forma di malattia mentale collettiva.

Non è, evidentemente, un caso, se gli studi più recenti riportano che circa due terzi dei giovani americani non solo non sa cosa sia la Shoah, ma addirittura qualcuno (più di uno su dieci), è convinto che siano stati gli ebrei stessi a causarla; uno studio commissionato dal Conference on Jewish Material Claims Against Germany, riportato dal Guardian, ha portato alla luce il fatto che il 48% degli intervistati tra i 18 e i 39 anni non sappia il nome di nessun campo di concentramento, che il 23% ritenga che l’Olocausto sia un mito, che il 12% non ne abbia mai sentito parlare.

Anche in Italia, secondo il Rapporto Italia 2020 dell’Eurispes, i negazionisti, che rappresentavano il 2,7% nel 2004, oggi sono arrivati al 15,6%. È il segno, più evidente, del fatto che ci sia bisogno di riappropriarsi nella maniera adeguata di quella che è stata una delle pagine più nere nella storia dell’umanità; studiandola, approfondendola, ascoltando testimonianze preziose come quelle di Liliana Segre o delle sorelle Bucci.

La disattivazione degli hastag relativi al trend da parte di Tik Tok sembra dar ragione al parere di coloro che in questi video hanno visto una deriva offensiva, anche se magari non volontaria, da parte degli utenti. Il dubbio se il tutto nasca da una genuina volontà di sensibilizzazione oppure da una “pornografia del trauma” però rimane, consapevoli che ogni discussione sulle modalità con cui va affrontato un tema come l’Olocausto debba sempre essere costruttiva, affinché dell’argomento non si smetta di parlare, giovani compresi.

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