Sta già facendo parecchio discutere il documentario Netflix The Tinder Swindler, prodotto da Felicity Morris (Don’t f**k with the cats), che racconta le “imprese” tutt’altro che edificanti dell’impostore Shimon Hayut.

Per un lungo periodo di tempo Hayut si è spacciato sull’app di dating Tinder per Simon Leviev, figlio del magnate israeliano dei diamanti Lev, e ha conosciuto diverse donne a cui mostrava la sua (apparentemente) agiatissima vita, chiedendo poi loro del denaro con la scusa che la sua vita fosse in serio pericolo.

Sia chiaro, Hayut-Leviev non è certo il primo a commettere una truffa online sentimentale, anzi il mondo è purtroppo pieno di storie di persone che, totalmente obnubilate dall’amore per un/a partner spesso mai neppure conosciuto/a vis à vis, hanno perso molto denaro proprio perché raggirati da questi impostori senza scrupoli; ma l’aspetto su cui quasi nessuno si ferma a riflettere, in vicende del genere, riguarda proprio le motivazioni delle vittime: è davvero possibile fidarsi in maniera così cieca e totale di una persona che neppure si conosce, al punto da rischiare la bancarotta se questa ci racconta di essere in difficoltà economiche o, come nel caso del truffatore del documentario di Netflix, addirittura a rischio di vita?

Il documentario di Morris si propone di guardare le cose esattamente da questa prospettiva, e in effetti vengono raccolte, in maniera molto dettagliata, le testimonianze di tre delle vittime di Hayut-Leviev, una delle quali dice esplicitamente “Mi piaceva pensare che le persone sapessero che ero fidanzata con un uomo del genere”.

Ovviamente una frase del genere fornisce un assist perfetto se l’idea che si ha è che queste donne fossero ammaliate da Shimon Hayut esclusivamente per lo stile di vita che proponeva e prometteva su Internet. Ma, fosse anche che a una donna piacciano le cose materiali che una persona le può offrire – il che non configura alcun reato -, ciò non significa che in una situazione del genere sia da considerarsi “meno vittima” o da biasimare perché materialista o superficiale.

Invece l’idea che traspare, da un lato, è proprio questa: che il fascino esercitato dalle millantate ricchezze di Hayut rappresenti un motivo, come spesso accade, per considerare le donne “corresponsabili” del proprio destino, in un certo qual modo. A dirlo sono proprio le donne intervistate nel documentario, che raccontano della fortissima tempesta mediatica abbattutasi su di loro subito dopo l’uscita della vicenda e di come la definizione di “arrampicatrici sociali” fosse una delle più frequenti che venisse loro rivolta.

Come a dire: sei un po’ meno vittima della truffa se ci sei cascata perché l’idea di vivere una vita extra lusso ti affascinava e ti sei fatta abbindolare da gioielli, viaggi, aerei privati e via dicendo.

Non è il solo tipo di critiche che queste tre donne si sono sentite rivolgere: ciò che è stato detto loro, sostanzialmente, è che solo una persona poco intelligente poteva cascare in una truffa simile, che erano state delle povere ingenue, che chiunque (a parte loro, ovviamente) avrebbe capito che era un raggiro. Ma perché preoccuparsi così tanto di dare addosso alle vittime, di rilevare la loro ingenuità, la loro superficialità, e far passare quasi sotto silenzio il fatto che un uomo, per molti mesi, abbia commesso un reato?

Reato per cui, peraltro, Shimon Hayut ha pagato in maniera irrisoria: catturato nel 2019, ha passato 15 mesi di reclusione in un carcere israeliano, venendo rilasciato dopo appena 5, costretto a pagare un risarcimento di oltre 43 mila dollari. Già nel 2011 era stato sotto processo per frode, ma era riuscito a fuggire, mentre nel 2015 aveva passato 2 anni in un carcere finlandese con l’accusa di aver truffato tre donne. Curiosamente, il suo profilo Tinder è stato disattivato, per stessa ammissione del social, solo il 4 febbraio, ovvero due giorni dopo l’uscita del documentario. C’è però un profilo Instagram – non sappiamo se sia vero oppure no – a nome Simon Leviev, con un link a una pagina GoFundMe dove il presunto Shimon starebbe raccogliendo denaro per citare in giudizio Netflix a causa delle sofferenze che il documentario sta causando alla sua famiglia.

Il trailer del documentario è disponibile a questo link.

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