"Chi si ribella, è penalizzata": la violenza ostetrica raccontata da due ostetriche

Nel corso di uno studio spagnolo del 2014 sulla percezione della violenza ostetrica nei reparti di maternità, il 94% delle ostetriche interpellate dichiarò di aver assistito a violenze ostetriche durante la formazione, l'80% che gli fosse stato insegnato a lavorare in modo violento nelle sale parto, il 78% di essersi sentito costretto a lavorare utilizzando procedure ostetriche violente. Indagare con criteri scientifici la percezione della violenza ostetrica non solo dal punto di vista di chi la subisce, ma anche di chi vi assiste o la agisce, potrebbe offrire una visione più ampia del fenomeno e ci permetterebbe di contestualizzare testimonianze individuali come queste che seguono.

“Ogni ostetrica assiste regolarmente o ha assistito a episodi di violenza ostetrica. Molte di noi l’hanno praticata, o sono complici. Ognuna sa e vede, ma non può dire nulla. Chi prova a ribellarsi, finisce per trovarsi isolata e penalizzata. Se non ti va bene, te ne devi andare o ti costringono a farlo”. 

A parlare è un’ostetrica che, con la garanzia dell’anonimato, accetta di raccontarmi la sua versione della storia. Ho intercettato il suo messaggio privato (sopra riportato) e quello di una sua collega tra i tanti che sono arrivati, alla sottoscritta e in redazione, dopo che ho scelto di raccontare pubblicamente la mia storia di violenza ostetrica, e aggiungere la mia alle tante voci di donne e genitori che si sono sollevate ovunque nelle settimane scorse:

Perché vuole restare anonima? 

Perché avrei de problemi al lavoro. Più di quelli che già ho.

Che problemi ha? 

Per dieci anni ho lavorato in un ospedale pubblico. Poi sono passata a una struttura privata perché non ce la facevo più, speravo che lì ritmi di lavoro e la qualità delle cure offerte alle pazienti mi avrebbero permesso di ricominciare ad amare il mio lavoro e a farlo come si deve, ma non è andata così. La violenza ostetrica è una piaga di cui tutti sanno e nessuno parla. Sto pensando di licenziarmi, non ce la faccio più: orma da anni soffro di attacchi di panico e fasi depressive.

Le capita spesso di assistere a episodi di violenza ostetrica? 

Praticamente tutti i giorni.

Mi fa degli esempi? 

Potremmo stare al telefono fino a domani. La cosa più frequente è la violenza verbale. Ci sono colleghe, dottori o dottoresse che gridano contro le pazienti, dicono loro di star zitte, che non le sopportano più; le fanno sentire in colpa dicendo che non hanno mai visto nessuno urlare e lamentarsi tanto. Una collega qualche giorno fa ha detto a una donna in travaglio da 10 ore di smetterla che aveva mal di testa, e non è certo la cosa peggiore che ho sentito. Un ginecologo una volta disse a una donna che, se non avesse iniziato a spingere bene, come le veniva chiesto, avrebbe potuto creare un danno irreparabile al suo bambino.

Altre forme di violenza ostetrica?

Spesso si lasciano le donne in travaglio a soffrire da sole ignorando le richieste di epidurale. Così facendo si spera che la partoriente arrivi a una dilatazione tale che non abbia più senso farla.

Perché?

Perché molte di noi ritengono che il dolore sia una parte necessaria del parto e vogliono ridurre al minimo la medicalizzazione. Salvo il fatto che poi, quando si temporeggia troppo, si finisce per dover fare tutto di fretta e in urgenza: altro che parto naturale, allora!

A questo proposito, le leggo queste definizione della violenza ostetrica intesa come

l’appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi delle donne da parte del personale sanitario, che si esprime come trattamento disumanizzato, abuso di farmaci e conversione dei processi naturali in processi patologici, portando con sé la perdita di autonomia e la capacità di decidere liberamente sul proprio corpo e sulla propria sessualità, impattando negativamente sulla qualità della vita delle donne” (Perez D’Gregorio, 2010).

Ora, molte definizioni come questa prendono in considerazione solo o principalmente l’aspetto dell’ipermedicalizzazione del parto. La maggior parte delle vittime di violenza ostetrica, però, denuncia proprio il contrario, a partire dalla negazione dell’epidurale, del parto cesareo o dell’analgesia in fase di sutura. Questi parti sono troppo o troppo poco medicalizzati?

Il punto è proprio questo: tutte e due le cose. La tendenza è di lasciare le partorienti a gestire da sole il travaglio fino alla fase espulsiva, senza distinguo tra chi ci arriva in due ore e chi in quindici. Molti parti che finiscono in ipermedicalizzazione sono frutto di travagli complessi in cui non è stata data assistenza adeguata; o non si è creduto al dolore e ai campanelli di allarme forniti dalla donna. Soprattutto c’è questa idea che il parto debba essere un’esperienza naturale, ma quando si attende troppo e ìi parametri vitali di mamma e/o bambino rischiano di diventare critici, poi non si può più andare tanto per il sottile, e allora si va di cesareo, ventose, ossitocina, episiotomia, manovre di compressione dell’utero dolorosissime e particolarmente violente, e si costringe la donne a partorire sul lettino. Si ha cioè la medicalizzazione totale del parto.

Da tutto naturale a tutto medicalizzato: in tutto questo la donna, il suo corpo, le sue emozioni e il suo volere dove sono? Perché si continua a minimizzare il dolore delle donne, a non credere loro e ignorare le richieste di aiuto? Sempre colpa della mistica del dolore e del sacrificio materno? 

Senz’altro, e dell’idea che fare un figlio sia la cosa più naturale e gioiosa per una donna. Ma c’è anche l’altro aspetto più pratico: oggettivamente, i reparti ospedalieri tutti sono al collasso, in termini di risorse, personale. Lo stress e il burnout espongono a un maggior rischio di essere protagonisti di episodi di violenza ostetrica. Si lavora in condizioni disumane, che creano condizioni di rischio.

Lei ha mai agito violenza ostetrica? 

Purtroppo sì. Mi è capitato di alzare la voce, ma soprattutto di sminuire o ignorare il dolore di alcune donne. All’inizio pensavo proprio che fosse la procedura corretta, un modo per spronarle come quando si dice a un bambino che è caduto e si è solo sbucciato un ginocchio “su, su, che non ti sei fatto niente”.

Un pattern tipico nella violenza di genere: è culturalmente e socialmente accettata, al punto da essere introiettata e da non riuscire a riconoscerla.

Riconoscere la violenza ostetrica credo sia difficile, per chi fa questo mestiere e per il personale medico in generale: siamo stati educate ed educati a questo modus operandi, per la maggior parte di noi è il modo giusto di lavorare. E guai a chi si ribella.

In che senso?

Chi si oppone, o più semplicemente cerca di cambiare le cose, è penalizzato in termini di carico di lavoro, carriera e subisce una sorta di bullismo. “Se ci tiene tanto a non traumatizzarla, vai tu!”, “Se ti avanza tempo per seguire la donna che urla ma ha solo due centimetri di dilatazione, va’, io non ce l’ho”… Finisci per correre come una trottola, farti carico del lavoro e anche del dolore di tutte. È usurante, a livello fisico e mentale. A un certo punto collassi.

Crede che i suoi attacchi di panico e gli episodi depressivi siano legati al suo lavoro?

Ne sono certa! La notte spesso non riesco a dormire e, quando mi addormento, spesso sogno che succedono cose terribili ad alcune pazienti e ai loro bambini per colpa mia. Sto pensando di lasciare. Ci sto rimettendo la salute.

***

La seconda ostetrica, dopo il primo messaggio rifiuta il contatto diretto. Ne segue una conversazione via chat, a singhiozzo: mentre nelle parole della professionista con cui ho parlato al telefono ci sono rabbia e frustrazione, nello scambio fugace con questa dominano la rassegnazione e un desiderio ambivalente di confessare e togliersi un peso, ma anche di smorzare i toni e tentare di restituire alla categoria i giusti distinguo, qualche alibi e le ragioni di chi fa bene il suo lavoro, e per questo paga un pegno in termini di carriera e salute mentale.

“Bene parlare di violenza ostetrica. Io che sono ostetrica confermo che è un problema ma bisognerebbe però raccontare anche che la violenza ostetrica fa male anche alle tante ostetriche che ogni giorno fanno bene il loro lavoro”, mi scrive. Quando le chiedo di spiegare, mi conferma il surplus di lavoro e il bullismo subito da coloro che non ci stanno e provano a cambiare le cose – chiedendo alla collega di smetterla di deridere una donna, sollecitando un’epidurale che non arriva o un medico affinché interrompa una manovra di compressione uterina non necessaria – con il risultato di trovarsi in affanno a correre a destra e a manca, nel tentativo di restituire alle partorienti un’esperienza il meno traumatica possibile.

Entrambe le ostetriche descrivono cioè un fenomeno simile a quello cui si assiste con i ginecologi non obiettori di coscienza, che finiscono col far fronte, da soli, a una mole di lavoro ingente che i colleghi non intendono condividere, rimettendoci in salute e carriera perché confinati e silenziosamente delegittimati nella loro attività invisa di “outsider al servizio delle pazienti”.

Chiaro, due ostetriche non fanno statistica e due testimonianze non restituiscono uno spaccato di una situazione sanitaria, su cui pesano in ogni caso l’evidenza e la concretezza della violenza ostetrica, la cui definizione compare per la prima volta nel 2007 sulla Gaceta Oficial de la República Bolivariana de Venezuela (2007) e su cui la stessa Organizzazione mondiale della sanità si è pronunciata nel 2015 con un documento in cui si evidenzia la pervasività della violenza ostetrica e la necessità prioritaria di inquadrarla ed eliminarla; da cui la citazione che segue:

Tuttavia, un numero crescente di ricerche sulle donne esperienze durante la gravidanza, e in particolare il parto, dipinge un quadro inquietante. Molte donne in tutto il mondo subire un trattamento irrispettoso, offensivo o negligente durante il parto in strutture. Ciò costituisce a violazione della fiducia tra le donne e la loro assistenza sanitaria fornitori e può anche essere un potente disincentivo per donne a cercare e utilizzare i servizi di assistenza sanitaria materna. Nonostante il trattamento irrispettoso e abusivo delle donne può verificarsi durante la gravidanza, il parto e il periodo postpartum, le donne sono particolarmente vulnerabili durante il parto. Tali pratiche possono avere effetti negativi diretti conseguenze sia per la madre che per il bambino. Molte donne subiscono trattamenti irrispettosi e violenti durante il parto nelle strutture di tutto il mondo. Tale trattamento non solo viola i diritti delle donne a cura rispettosa, ma può anche minacciare i loro diritti alla vita, alla salute, all’integrità fisica, e la libertà dalla discriminazione. Questa dichiarazione richiede maggiore azione, dialogo, ricerca e advocacy su questa importante questione di salute pubblica e diritti umani (WHO, 2015).

I numeri della violenza ostetrica, del resto, variano molto a seconda del Sistema sanitario di riferimento, ma sono contrastanti al punto da denunciare anche l’assenza di una visione scientifica e condivisa sul tema, a livello internazionale, e da suggerire un sommerso non quantificato. Per intenderci, l’incidenza della violenza ostetrica va dal ‘più di una donna su dieci’ (11,6%) in Australia al 76,3% stimato da uno studio tedesco, fino al 67,4% di una ricerca spagnolo e alla percentuale del 20% italiana data dallo studio DOXA-OVO (vedi fonti a fondo articolo).

Indagare in modo scientifico la percezione della violenza ostetrica all’interno del personale sanitario presente nei reparti di maternità e nei blocchi parti, potrebbe offrire una visione più ampia del fenomeno. Le testimonianze individuali e volontarie delle ostetriche interpellate, per esempio, corrispondono ai vissuti riportati da 69 ostetriche spagnole all’interno di uno studio presentato all’International Marce SocietyBiennial Scientific Conference “Creating Change in Perinatal Mental Health” a Swansea, in Galles, nel settembre 2014, in cui:

  • il 94% dichiarava di aver assistito a violenze ostetriche durante la formazione,
  • l’80% riteneva che gli fosse stato insegnato a lavorare in modo violento nelle sale parto,
  • il 78% si è sentito costretto a lavorare utilizzando procedure ostetriche violente.

Di nuovo, però, si è di fronte a un campione insufficiente dal punto di vista statistico, ma tale da suggerire la necessità di indagare la violenza ostetrica non solo dal punto di vista di chi la subisce ma di chi vi assiste o la agisce.

Fonti:
Ley Orgánica sobre El Derecho e Las Mujeres a Una Vida Libre De Violencia, sulla Gaceta Oficial de la República Bolivariana de Venezuela (2007), G.O. (38668 de 23/4/2007).
World Health Organization, The prevention and elimination of disrespect and abuse during facility-based childbirth. 2015. Dichiarazione approvata da oltre 90 organizzazioni.
Keedle, H., Keedle, W., & Dahlen, H. G. (2022). Dehumanized, Violated, and Powerless: An Australian Survey of Women’s Experiences of Obstetric Violence in the Past 5 Years. Violence Against Women.
Reuther, M.L. (2021) Prevalence of Obstetric Violence in Europe : Exploring Associations with Trust, and Care-Seeking Intention.
Juan Miguel Martínez-Galiano, Sergio Martinez-Vazquez, Julián Rodríguez-Almagro, Antonio Hernández-Martinez, The magnitude of the problem of obstetric violence and its associated factors: A cross-sectional study, Women and Birth,Volume 34, Issue 5, 2021.
Olza, Ibone & Ruiz-Berdún, Lola. (2014). Midwives experiences regarding obstetric violence.
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