L’11 maggio 2011, il Consiglio d’Europa rese ufficialmente disponibile alla firma il primo trattato giuridicamente vincolante contro la violenza di genere. La Convenzione di Istanbul, così denominata sulla base del primo Stato, la Turchia, che la ratificò nel 2012, si pose come obiettivo la prevenzione della violenza sulle donne – colpite maggiormente perché immerse in una cultura dominata dalla supremazia maschilista – la protezione delle vittime e la persecuzione penale degli aggressori.

Nel corso dei suoi primi dieci anni di vita, però, non tutto è andato come previsto. Lo dimostra il numero di Paesi che hanno firmato la Convenzione, ma – come riporta Euronews – non l’hanno mai ratificata, tra cui il Regno Unito, l’Ungheria e la Repubblica Ceca. Lo dimostra la volontà di due nazioni di ritirarsi dall’accordo, ossia la Polonia, con un processo già avviato l’anno scorso, e la stessa Turchia, il cui annuncio risale a qualche settimane fa.

E lo dimostra, infine, il preoccupante numero di femminicidi susseguitisi nell’ultimo decennio, la misoginia che si trasforma in assassinio, la violenza di genere che ancora non arretra e che, anzi, cresce esponenzialmente. Soprattutto quella domestica e familiare, di cui – come rivela il report dell’Eures – risultano complici involontari i numerosi lockdown imposti nell’ultimo anno. E che, inconsapevolmente, lasciano molte donne nelle mani dei propri carnefici.

Che cos’è la Convenzione di Istanbul

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Fonte: Unsplash

Il nome esteso e originario del documento è: “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica”. Il 2011, tuttavia, non fu l’anno in cui la discussione vide la luce per la prima volta.

Il tema della violenza di genere, infatti, iniziò a divenire caro al Consiglio fin dagli anni ‘90, quando quest’ultimo avviò una serie di iniziative volte a salvaguardare le donne dal maltrattamento domestico. Le discussioni diedero i primi risultati nel 2002, con l’approvazione della Raccomandazione Rec(2002)5: la prima strategia a livello globale per la prevenzione della violenza e la protezione delle sue vittime.

A questa fece, poi, seguito l’ingente campagna avviata in tutta Europa dalla Task Force del Consiglio d’Europa negli anni compresi tra il 2006 e il 2008, durante i quali cominciarono a delinearsi i primi cardini strutturali su cui si sarebbe, successivamente, eretta la Convenzione di Istanbul, entrata in vigore – in seguito al raggiungimento delle firme necessarie – nel 2014.

Costituita da un Preambolo, un Allegato e 81 articoli ripartiti in 12 Capitoli, la Convenzione si propone, appunto, di conseguire “tolleranza zero” nei confronti della violenza di genere, considerata alla stregua di una forma di discriminazione e, in particolare, di una violazione dei diritti umani.

Merito della Convenzione di Istanbul è proprio quello di indicare, tra gli atti perseguibili penalmente, tutte le declinazioni della violenza, conseguenza di una relazione di potere storicamente asimmetrica tra uomo e donna. Essa, quindi, non è intesa solo nella sua accezione fisica, ma anche nella sua sfumatura psicologica e sessuale, comprendendo atti persecutori (stalking), stupro, atti non consensuali di natura sessuale, matrimonio forzato, aborto e sterilizzazioni indotti, mutilazioni genitali femminili, delitti d’onore e molestie – con un occhio di riguardo, inoltre, alle donne migranti e richiedenti asilo, particolarmente soggette alle violenze di genere.

Una proposta di azione composita e salda, che, tra le sue iniziative, ha visto perfino la nascita di un Gruppo di esperti per la lotta contro la violenza contro le donne e la violenza domestica (GREVIO), incaricato di monitorare costantemente che il trattato venga applicato e rispettato.

Qualcosa, però, è andato storto.

Mancate ratifiche e ritiri: il caso della Polonia e della Turchia

Nel corso degli anni, i Paesi che hanno firmato il trattato senza ratificarlo sono stati 12, mentre quelli che l’hanno firmato, ratificato e attuato sono stati 34. Tra questi ultimi compare anche l’Italia, che ha convertito il testo in legge il 19 giugno 2013, pur apportandovi alcune modifiche.

Ciò che ha generato la maggior quantità di critiche da parte dei firmatari, in potenza ed effettivi, è, infatti, il Comma C dell’Articolo 3, comprendente la definizione di “genere”:

Con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini.

Ne deriva, dunque, che la violenza contro le donne basata sul genere designi, come recita il Comma D,

qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato.

Una definizione «troppo ampia e incerta», come hanno accusato alcuni Stati – compresa l’Italia –, che potrebbe essere interpretata in modo errato e potrebbe introdurre la «tolleranza di un terzo genere», sebbene termini come “intersessuale” e “transgender” non compaiano nel documento.

La Convenzione, inoltre, sarebbe rea di imporre uno «stile di vita liberale e occidentale» in società conservatrici e tradizionali, dal momento che prevede l’inclusione, nelle scuole, di materiale didattico su ruoli di genere non stereotipati. Un’iniziativa che, naturalmente, trova il contrasto della nuova ondata nazionalistica che serpeggia nel mondo contemporaneo.

È il caso della Polonia, che la scorsa estate ha annunciato di volersi ritirare dalla Convenzione di Istanbul perché, come dichiarato dal Ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro (e riportato sempre su Euronews):

Il suo impianto ideologico è legato all’imperativo di cambiare l’educazione nelle scuole e, al di fuori dei programmi scolastici, in termini di apprendimento, atteggiamenti e convinzioni della giovane generazione polacca di studenti, di prendere, a nostro avviso, il falso presupposto che il sesso biologico sia un arcaismo, a fronte di quello socio-culturale.

Un discorso affine a quello promulgato dalla Turchia, che a fine marzo ha comunicato la disdetta del trattato per volere del dittatore Recep Tayyip Erdogan. Il quale, sempre più influenzato dai gruppi islamici conservatori cui afferiscono anche molti esponenti del suo partito, ha abbracciato l’idea che la Convenzione – come riporta Il Post – sarebbe contraria alle norme dell’Islam e giustificherebbe omosessualità e aborto, andando, così, contro le tradizioni e i costumi del Paese.

Una decisione che non ha mancato di attirare critiche, interne ed esterne alla Turchia, come quelle provenienti dal presidente americano Joe Biden, che, come si legge su Globalist, ha definito il gesto al pari di:

Uno sconfortante passo indietro, per il movimento internazionale, per mettere fine globalmente alla violenza contro le donne.

Femminicidio: alcuni numeri

Stop violence
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L’annunciato ritiro di alcuni Stati firmatari non è, però, forse il dato più sconcertante. A destare preoccupazione è, infatti, il numero sempre più elevato di femminicidi perpetrati in seguito, e nonostante, la diffusione della Convenzione. Che prevede, come suo assunto principale, proprio la prevenzione del fenomeno e la protezione delle sue vittime.

Solo in Italia, in base all’ultimo rapporto emesso dall’Eures in occasione dello scorso 25 novembre, le donne uccise nei primi dieci mesi del 2020 sono state 91, di cui 81 in contesti familiari. E la convivenza forzata causata dalla pandemia non ha migliorato il trend.

I dati rivelano, infatti, un’acuita correlazione tra la coabitazione e il rischio omicidiario (+10,2% rispetto al 2019), confermando, perciò, la matrice profondamente patriarcale del femminicidio: un reato commesso, nella maggior parte dei casi, tra le mura domestiche e figlio di una dinamica di potere e possesso da parte di compagni ed ex partner.

L’ingerenza del contesto familiare ha, dunque, raggiunto il valore record dell’89%, con un conseguente aumento dei femminicidi consumati nell’ambito della coppia, giunti al 69,1%. Contestualmente, hanno subito un incremento anche le chiamate al numero verde 1522 del Dipartimento per le Pari Opportunità, attivato per le vittime di stalking e violenza. Secondo i dati Istat, infatti, le telefonate, al 30 ottobre scorso, hanno incontrato un’accelerazione del 71,7%, passando dalle 13.424 dell’anno precedente alle 23.071 del 2020.

Una tendenza che si riscontra anche nelle altri parti del mondo. E che, come rivela il rapporto dell’ONU sull’omicidio globale in base all’anno 2017 (il “Global Study on Homicide 2019”), porta il numero delle donne vittime di femminicidio intenzionale a circa 87.000, con un tasso di aumento degli episodi domestici (dai 48.000 del 2012 ai 60.000 del 2017) che attesta, come autori degli omicidi, il 24% dei congiunti e il 34% dei partner.

Una stima di 2,3 donne uccise per 100.000, disseminate in Africa (dove il rischio di essere assassinate da membri della famiglia o dai compagni è maggiore), America, Europa, Oceania, Asia. Nessun continente escluso.

Senza dimenticare, infine, i femminicidi esterni al contesto familiare e motivati da maschilismo tossico e rigidi ruoli di genere, compiuti nel contesto di guerre e conflitti armati o perpetrati nei confronti delle prostitute e delle schiave del sesso.

Ambiti dissimili, ma che, costantemente, riportano ancora gli stessi moventi: possessività, istruzione limitata, abusi, potere, supremazia, discriminazioni, denigrazione, controllo, odio viscerale.

Quando smetteremo di morire come mosche?

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