"L’aborto è la madre che nega se stessa"? Barbara Alberti non parli a nome delle donne

Cosa dovrebbe pensare, leggendo quell'articolo, una donna che si appresta a interrompere volontariamente una gravidanza? Che se tutto le va bene le toccherà vivere a metà perché ha ucciso una parte di sé?

Le parole costruiscono mondi, ci costituiscono nel mondo e al mondo ci restituiscono. Le forme di rappresentazione passano attraverso le parole, quelle sussurrate, dette, gridate, espresse sotto forma di segni, ritenute, non proferite o soltanto immaginate.

Attraverso le parole si veicola tanto dell’amore, ma tanto anche della violenza, nell’assunto che nessuna forma di linguaggio e significazione sia neutra, ma comunque sempre connotata.
Ce lo racconta bene il nuovo numero de l’Espresso, in uscita il 20 novembre, che titola “La violenza non è un luogo comune”, invitandoci a ripartire dal linguaggio quotidiano per contrastare l’uso feroce e violento che dalle parole trasuda.

Ci chiediamo, allora, alla luce di questo lodevole invito, quale significato assuma l’articolo, pubblicato due giorni prima, sempre su l’Espresso, della scrittrice Barbara Alberti, dal titolo “Solo le donne sanno cosa è l’aborto”, in cui quelle parole sono tutto, fuorché uno strumento di liberazione e affrancamento dalla violenza, ma che anzi, colpiscono lapidarie come pietre, e potete ben immaginare nei confronti di chi vengano scagliate.

L’incipit del sommario è una perfetta sinossi di tutto l’articolo: “È un lutto segreto, la madre che nega se stessa, dal quale non si guarisce”. Cominciamo bene, insomma.

Potrei problematizzare ogni frase di questo articolo, avrei l’imbarazzo della scelta. Potrei parlare del paragone tra aborto e assassinio, in cui la madre uccide sé e da culla della vita si trasforma in tomba. Potrei parlare di questa prognosi certa, che ci vedrebbe non guarire mai dall’aborto, ma se tutto ci va bene uscirne vive a metà.

Potrei arrivare alla comprensione pietosa del Papa, descritto da Barbara Alberti, in cui un uomo vestito di bianco ci spiega il nostro dolore perché lui lo sente “il dolore della madre-non madre”. No, quello si chiama mansplaining e ci racconta “il dolore di un uomo-che cerca di spiegarci cose che non sa e non conosce assumendo un atteggiamento paternalista e moralizzatore”.

Potrei focalizzarmi sulla visione per cui noi donne abbiamo in abominio l’aborto (addirittura più di Sua Santità), non lo sceglieremmo mai, perché in fondo la maternità resta sempre un atto magico.

Potrei infine rizzare le antenne per quel “noi donne lo sappiamo”, ripetuto come un mantra a più riprese, per cui non ci sarebbe neanche bisogno di spiegarcelo, quasi di dircelo talmente che è scontato, e che ci vedrebbe tutte accomunate da un unico vissuto di dolore e aberrazione di noi stesse, appiattendo, di fatto, ogni forma di alterità e differenza, di fronte a uno Stato di diritto in cui quella pratica, assimilata nell’articolo a un assassinio, di fatto è inquadrata come una pratica del benessere e della salute sancita da una legge dello Stato.

Potrei parlare di tutto questo, e solo di questo, ma non lo farò. Parlando solo del contenuto di quell’articolo rischierei di guardare al dito che punta, piuttosto che alla luna.

Credo fortemente che ciascuna di noi sia figlia del proprio tempo e della propria storia, e oggi il transfemminismo sta provando a raccontare e riscrivere una storia nuova, anche rispetto alle narrazioni intorno all’aborto. Non possiamo e non vogliamo rinnegare il patrimonio generazionale che le prime ondate femministe ci hanno lasciato, ma sentiamo la responsabilità di ampliare l’orizzonte di riflessione e problematizzazione occupando uno spazio intersezionale sempre più ampio e trasversale.

Quello che si sta provando a fare, non a fatica, è provare a restituire parola a chi l’esperienza abortiva l’ha vissuta sul proprio corpo, al netto di una gamma emotiva talmente ampia, articolata e complessa, che non possiamo e non vogliamo più racchiudere unicamente nella narrazione dolente e pietista di un’esperienza traumatica e sofferta.

Sappiamo che l’aborto è quello che per noi è l’aborto, e questo non ci delegittima dall’accedere a un diritto che non si paga in termini di dolore e sofferenza. Sappiamo, altresì, che il più delle volte l‘inferno dell’aborto è causato dalla mancanza di un servizio dignitoso, assenza di personale medico e sanitario non obiettore, nonché l’assenza di assistenza, corrette informazioni e un corretto accompagnamento. Aggiungiamoci anche lo stigma e il tabù che investono l’aborto alimentando solitudine, silenziamento delle esperienze e vergogna e direi che il quadro è completo. Al netto di tutto quello che ci siamo date lo spazio di ascoltare e sapere, c’è la singolarità di ogni storia e ogni vissuto, a cui non possiamo voltare le spalle.

Credo che, al netto di tutto, tocca domandarsi come si sia scelto, allora, di pubblicare quell’articolo all’interno di una rivista che, casualità vuole, proprio nel suo ultimo numero, si interroga sull’uso delle parole e sulla violenza che talune parole, anche all’apparenza innocue, possano esercitare su chi le ascolta, o chi le legge.
Devo dedurre, allora, che un articolo in cui l’aborto viene accostato a un assassinio non venga considerato un utilizzo violento della parola?

Cosa dovrebbe pensare, leggendo quell’articolo, una donna che si appresta a interrompere volontariamente una gravidanza? Che se tutto le va bene le toccherà vivere a metà perché ha ucciso una parte di sé?
Cosa dovrebbe pensare, leggendo quelle parole, una donna che quella gravidanza ha scelto VOLONTARIAMENTE (così faccio il paio in caps lock con il “le donne NON vogliono abortire) di interromperla e che invece di sentirsi finalmente accolta e non giudicata si trova per l’ennesima volta a sentirsi nei panni sbagliati con cui la storia ha scelto, ancora una volta, di vestirla?

Mi apro a domande a cui non riesco a trovare una risposta, soprattutto alla ricerca di quelle parole nuove a cui l’Espresso ci invita, saggiamente, ad ancorarci per ripartire, anche alla luce di un profondo revisionismo in materia di diritti. Dove sono, in quell’articolo, i nostri diritti? Dove sono, in quelle parole, una spinta di ripartenza per la fuoriuscita da sistemi di potere patriarcali e machisti?
Ma soprattutto, dove sono in quelle parole, quelle in cui qualcuno ha deciso che tutte le donne lo sanno, le nostre di parole?

E allora, forse, tocca decidere una linea chiara e condivisa in cui alla nominazione, per una volta, faccia seguito, finalmente, un processo reale di creazione, a partire dalle nostre storie, dai nostri diritti e dai nostri aborti come scelte libere e personali che noi, e solo noi, siamo chiamate a raccontare e descrivere.

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