Aurora Ramazzotti, crescendo, è diventata una giovane donna che ha molto a cuore i problemi che ogni giorno le donne devono affrontare; parliamo di difficoltà nel mondo del lavoro, di quote rosa, argomento che è stato al centro del suo primo servizio come “Iena”, ma anche di molestie.

In alcune recenti storie pubblicate su Instagram Aurora ha infatti parlato di catcalling, l’odiosa pratica degli uomini di fischiare, fare cenni o richiamare l’attenzione femminile lungo la strada, dopo un episodio capitatole mentre faceva jogging.

Ci rendiamo conto che nel 2021 succede ancora, di frequente fra l’altro, il fenomeno del catcalling? Sono l’unica che ne è vittima nonostante io sia anche una che di solito si veste un po’ da ‘maschiacchio’? Ma appena mi metto una gonna, o come in questo caso, mi tolgo la giacca sportiva mentre sto correndo io debba sentire i fischi, i commenti sessisti, le schifezze… A me fa schifo, e se sei una persona che lo fa e stai vedendo questa storia perché ti arriva in qualche modo sappi che fai schifo.

Troppo spesso il catcalling viene ancora minimizzato, sia dagli uomini che dalle donne stesse, che lo interpretano tutt’al più come un “complimento” in base al quale misurare la propria avvenenza fisica. In realtà parliamo di una vera e propria molestia, ben distinguibile da un apprezzamento fatto con educazione e, soprattutto, recepito come tale dall’altra persona.

Il catcalling sottende a un atteggiamento di abuso perché chi lo riceve reagisce sentendosi a disagio, in imbarazzo, impaurita o arrabbiata in quanto impotente. Non è richiesto, non scaturisce da un approccio o da un dialogo, ma avviene perché gli uomini si sentono in diritto di rivolgere determinate frasi a una donna, sessualizzandola. Ecco perché i “Ciao bella”, i fischi, o gli apprezzamenti anche più esplicitamente sessuali sono da considerarsi tutt’altro che manifestazioni di interesse, ma veri e propri atti molesti. Perché non sono richiesti e pongono chi li subisce in una situazione in cui non si sente a proprio agio, oppure a mutare il proprio atteggiamento.

Ad esempio, uno studio condotto da Cornell University e iHollaback nel 2014 ha rilevato che nel nostro Paese quasi l’80% delle ragazze ha dichiarato di aver subito almeno un episodio di catcalling prima dei 17 anni, e che questa esperienza ha costretto buona parte di loro a rivedere alcuni atteggiamenti: ad esempio il modo di vestire, o il passare da strade diverse a seconda di quanto siano frequentate, per non ritrovarsi da sole. Insomma, come spesso capita è la vittima a sentirsi colpevole e a pensare di dover modificare il proprio comportamento, non chi fa catcalling.

In Francia il catcalling è diventato reato grazie a una legge voluta da Macron, che prevede multe salate (dai 90 fino ai 750 euro a seconda della gravità, più di 3 mila euro in caso di recidività), ma arriva anche a programmi di riabilitazione civica obbligatorio per il molestatore, proprio per sottolinearne la gravità. Che è la stessa di qualunque altra situazione in cui manchi la cosa fondamentale per il rapporto tra i sessi: il consenso.

Solo una cosa ci sentiamo di aggiungere alle parole di Aurora: non è l’essere vestite in tenuta sportiva o con una gonna a fare la differenza, e non dovrebbe neppure valere la pena sottolineare come si sia vestite quando si subisce del catcalling. Perché non c’è nulla che possa implicare una corresponsabilità femminile, e nulla che renda una donna più o meno esposta a subirlo. Altrimenti, se pensiamo che indossare una minigonna o un top possa “metterci più a rischio” non facciamo altro che continuare ad alimentare quella stessa cultura per cui è la donna a dover pensare a come si comporta o cosa si indossa, e non gli uomini a rispettarla ed, eventualmente, tenere per sé anche tutti quegli apprezzamenti non richiesti.

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!