Chi recita il Salve Regina paga la multa o deve dire "Avvocato" invece di "Avvocata nostra"?

Questo titolo è un'iperbole, figura retorica cara ai "grandi padri" della lingua italiana, da Alighieri a Petrarca, da Ariosto e Tasso a Montale, e qui usata per mostrare come questa crociata contro i femminili professionali (che esistono!) sia, più che bizzarra, frutto di una scarsa conoscenza della lingua che pretende di difendere.

Una multa da mille a cinquemila euro per chi userà i femminili professionali, come “avvocata”, “sindaca”, “prefetta”. È la bozza di proposta di legge a firma del senatore leghista Manfredi Potenti, che punta a vietare negli atti pubblici “il genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, ed agli incarichi individuati da atti aventi forza di legge”.

Puntava, per coniugare i verbi in maniera corretta, visto che la proposta è stata ritirata nel giro di poche ore dal partito stesso, che ne ha preso le distanze a seguito delle polemiche suscitate, definendola “un’iniziativa personale”. Ma l’analisi della stessa non è superflua, visto che quello dei femminili professionali è tema ricorrente e caro a certa politica.

Nella proposta che difende l’italiano c’è un errore linguistico

A prescindere da come la si pensi, tocca evidenziare da subito un errore, ironia della sorte, linguistico nella proposta di legge in questione, poiché la declinazione femminile dei nomi sopraccitati e altri, chiamati in causa dalla stessa, non sono neologismi.

Laddove con il termine neologismo s’intende, da Treccani.it:

[dal fr. néologisme, comp. di néo– «neo-» e gr. λόγος «parola», col suff. –isme «-ismo»]. – In genere, parola o locuzione nuova, non appartenente cioè al corpo lessicale di una lingua […].

La formazione del femminile sottostà a precise regole grammaticali delle lingua italiana, che la proposta di legge in questione pare ignorare, se non addirittura rinnegare, quando dice:

La presente legge intende preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici, come ‘Sindaco’, ‘Prefetto’, ‘Questore’, ‘Avvocato’ dai tentativi ‘simbolici’ di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo.

Difendere l’italiano senza conoscere l’italiano

Di nuovo, nessun neologismo, e nessun tentativo simbolico: l’integrità della lingua italiana passa semmai dal preservare la correttezza grammaticale, in questo caso della formazione di femminili.

Per la stessa ragione, dal punto di vista linguistico, i femminili professionali, tra cui sindaca e prefetta, non possono essere definiti, citando di nuovo la bozza in questione: deformazioni letterali derivanti dalle necessità di affermare la parità di genere nei testi pubblici”.

Almeno non senza mostrare scarsa o nulla competenza nell’uso corretto della lingua italiana.

Che la parola sindaca sia corretta ed esista, è stato ampiamente dimostrato e argomentato, in questo articolo su Treccani.it del 2018, tra gli altri, anche dalla linguista italiana Cecilia Robustelli, già autrice di un pezzo dal titolo Lo schwa? Una toppa peggiore del buco, qui citato affinché il lettore frettoloso o la lettrice frettolosa non inquadri la studiosa nelle file degli schwaisti o delle schwaiste – esempi, questi sì, di neologismi! -, e non pretenda con questo di delegittimarne (arbitrariamente!) l’ortodossia delle sue argomentazioni. La bibliografia sul tema del resto è infinita, e se ne dà versione sintetica in calce1; posto che basterebbe avvalersi di un buon dizionario della lingua italiana.

Una lingua viva, evolve

Si aggiunga che imporre il “divieto del ricorso discrezionale al femminile o sovraesteso od a qualsiasi sperimentazione linguistica”2, come si legge nell’articolo 3 della bozza, è altrettanto bizzarro per chi voglia ergersi a difensore dell’italica lingua e, in quanto tale, dovrebbe ben sapere che solo una lingua morta è statica (es. il greco antico e il latino). Qualsiasi lingua viva, e che si auspichi in buona salute, evolve in continuazione, tant’è che non parliamo né l’italiano di Dante, né la lingua dell’Indovinello Veronese o del Placito Capuano che qualunque studente di Filologia Romanza o di Storia della lingua italiana ben conosce, in quanto prime attestazioni in volgare italiano.

E siccome le voci femminili in materia sono sempre delegittimate e miscredute, si citi qui Francesco Sabatini, Presidente Onorario dell’Accademia della Crusca, nel suo Lezione di italiano: “La lingua è natura, si evolve”.

Amen.
E a questo proposito si venga al titolo:

Chi recita il Salve Regina paga la multa o deve dire “Avvocato” invece di “Avvocata nostra”?

Questo titolo è un’iperbole, figura retorica cara ai “grandi padri” della lingua italiana, da Alighieri a Petrarca, da Ariosto e Tasso a Montale, e qui usata per mostrare come questa crociata contro i femminili professionali (che esistono!) sia, più che bizzarra, frutto di una scarsa conoscenza della lingua italiana che la proposta di legge in questione pretende, anzi pretendeva di difendere.

Non è senza ironia il fatto che la Lega, e il suo leader, siano soliti sgranare rosari e riferirsi ai valori cattolici, in ossequio a un’idea ben poco laica della politica, ma paiano ignorare una delle preghiere fondanti del culto cristiano, e del rito del Rosario.

A dirci che il femminile di avvocato esiste e non è un vezzo femminista moderno, infatti, c’è il Salve Regina, una delle quattro antifone mariane tradizionalmente attribuita a Ermanno di Reichenau, noto anche come il Contratto, monaco cristiano, astronomo e storico tedesco, venerato come beato dalla Chiesa cattolica e vissuto tra il 1013 e il 1054.

Già nel Medioevo, quindi, si attesta l’uso di “advocata”:

Salve, regina, mater misericordiæ,
vita, dulcedo et spes nostra, salve.
Ad te clamamus exsules filii Hevæ,
ad te suspiramus gementes et flentes
in hac lacrimarum valle.
Eia ergo, advocata nostra, illos tuos
misericordes oculos ad nos converte,
et Jesum, benedictum fructum ventris tui,
nobis, post hoc exsilium, ostende.
O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria.

Diventato nella versione italiana in uso, sancita e pubblicata nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, approvata dalla Conferenza Episcopale Italiana del 1967, “avvocata”:

Salve, Regina, Madre di misericordia;
vita, dolcezza e speranza nostra, salve.
A te ricorriamo, esuli figli di Eva;
a te sospiriamo, gementi e piangenti
in questa valle di lacrime.
Orsù dunque, avvocata nostra,
rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi.
E mostraci, dopo questo esilio, Gesù,
il frutto benedetto del Tuo seno.
O clemente, o pia,
o dolce Vergine Maria!

Con buona pace della Lega, e dai detrattori (o incompetenti?) della lingua italiana travestiti da suoi difensori. A meno che non si voglia multare chi oggi ancora recita il Salve Regina o imporre alla Vergine Maria il maschile professionale “avvocato”; ma sarebbe un’intransigenza imperdonabile a chi imbraccia sovente un rosario.


1 Bibliografia (molto) sintetica
in ordine cronologico

Alma Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1987.*
Silvia Luraghi, Anna Olita, Linguaggio e genere. Grammatica e usi, Carocci, 2006.
Maria Serena Sapegno, Che genere di lingua? Sessismo e potere discriminatorio delle parole, Carocci, 2010.
Cecilia Robustelli, Nicoletta Maraschio e autrici varie, Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano, GiULiA Giornalista, 2014.
Francesco Sabatini, Lezione di italiano. Grammatica, storia, buon uso, Mondadori, 2016.
* Anna Lisa Somma, Gabriele Maestri, Il sessismo nella lingua italiana. Trent’anni dopo Alma Sabatini, Blonk, 2020.
Vera Gheno, Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole. Ediz. ampliata, Effequ 2021.

Benedetta Baldi, Le parole del sessismo, Cesati, 2023.
2 “È ammesso l’uso della doppia forma od il maschile universale, da intendersi in senso neutro e senza alcuna connotazione sessista”. Per completezza, questo il seguito dell’articolo

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