“Perché non hai fatto neppure una domanda su Filippo Turetta e sul processo, a Gino Cecchettin?”.

A chiedermelo è un collega che, la sera del 23 ottobre, sedeva tra le oltre 500 persone che hanno riempito il Centro congressi di Darfo Boario Terme per assistere all’incontro con Gino Cecchettin in dialogo con la sottoscritta.

Due giorni dopo si sarebbe tenuta la seconda udienza della Corte d’Assise di Venezia, con l’attesa testimonianza di Turetta.

È una domanda cui mi sembra utile rispondere pubblicamente.

La risposta sta in tre parole:

Responsabilità, continenza e pertinenza.

Parto dalle ultime due, che dovrebbero essere note a chi esercita questa professione.
Continenza e pertinenza, insieme alla verità oggettiva, sono i tre criteri fondamentali del diritto di cronaca.

Dal «Testo unico dei doveri del giornalista»:

Ora, quanto può essere pertinente chiedere al padre di Giulia Cecchettin:

Cosa si aspetta che dica l’assassino di sua figlia, di lì a qualche ora?
Cosa vorrebbe dirgli?
Cosa pensa di fare o provare quando se lo troverà davanti?
Cosa dirà o vorrebbe dire ai suoi genitori?
Sarebbe disposto a perdonare?

Sono tutte domande che, nei mesi scorsi, sono state poste davvero a Gino Cecchettin.

Sono pertinenti? No.
Sono domande “da giornalista” cioè, per semplificare il concetto deontologico, funzionali al diritto di cronaca?

O sono semmai gli interrogativi che potremmo aspettarci da qualche persona senza alcun titolo per gestire questi temi, e priva (oltre che di competenza) pure della minima empatia?

E ancora: sono utili?
Aggiungono cioè qualcosa al discorso?

Sono domande così dirimenti da necessitare davvero una risposta al proprio microfono da parte di una vittima? No, e lo sappiamo! Sono interrogativi propedeutici a sezionare il dolore indicibile di una famiglia per sfamare la morbosità della stampa e del pubblico, e rubare clic e views.

Si dice che non esistano domande stupide. Avrei qualche dubbio, nella fattispecie.
Le alternative sono:

  1. incompetenza
  2. cattiva fede

In quale delle due collochiamo per esempio l’informazione che mostra i filmati con gli ultimi istanti di vita di Giulia Cecchettin? O quella che fa ascoltare alla vittima di un abuso di gruppo gli audio della violenza subita? O il giudizio sulla moralità delle vittime atto a determinarne la “quota di responsabilità” nel reato subito?

Rispondere a una domanda con altre domande è un espediente retorico molto utilizzato per eludure un interrogativo sgradito. Rivendico però qui la pertinenza, giusto per restare in tema, di rispondere con le domande sbagliate che la categoria giornalistica rivolge costantemente a Cecchettin, come a tutte le altre vittime dirette o indirette di violenza di genere.

Ne aggiungo anzi altre due, che sono state testualmente poste all’uscita dell’udienza a Gino Cecchettin, il 25 ottobre:

Qual è stato il momento più doloroso di questa giornata?

Turetta non ha mai incrociato il suo sguardo. Lei invece lo guardava fisso…

Gino Cecchettin, cioè una vittima, ha dovuto spiegare a noi giornalisti: “Non è questo il punto del processo”!

E vengo quindi alla responsabilità.

Chiunque abbia il privilegio di una platea di lettori, lettrici o di un microfono con cui parlare a un pubblico in senso più ampio, ne dovrebbe sentire il peso. Un/a giornalista a maggior ragione.

Tanto più che è proprio questa categoria a indicare nelle persone “non autorevoli” che oggi tramite i social possono svolgere un lavoro assimilabile a quello giornalistico, i “nemici numero uno” della nostra professione (quello che si dice: guardare il dito che indica la luna).

Chiedo allora, di nuovo:

Come si può considerare autorevole un giornalismo che formula queste domande furbe e violente per share e, così facendo, fa scientemente pornografia del dolore o victim blaming?
Risposta: non si può!

La narrazione della violenza di genere che si dà in quotidiani, programmi tv di approfondimento e media vari è oggi ancora violenta, irrispettosa, parassitaria e incompetente.

Rispecchia la vox populi, la chiacchiera da bar, il voyeurismo morboso più perverso e, così facendo, avvalla e mantiene in salute la cultura patriarcale da cui origina la violenza stessa.

In tutto questo, cosa c’entra Gisèle Pelicot?

C’è un minimo comune denominatore tra Gisèl Pelicot e Gino Cecchettin: la ferma volontà di cambiare questa narrazione sbagliata e sessista della violenza di genere, che empatizza con gli abuser e spettacolarizza il dolore delle vittime.

Gisèl Pelicot e Gino Cecchettin sono cioè vittime che si sono fatte carico di quello che dovrebbe essere ruolo e responsabilità del giornalismo e della classe politica e intellettuale del Paese.

Che però questa responsabilità non se la prendono (e spesso non hanno le competenze per farlo!)

“Ché la vergogna cambi lato”, che cambi la narrazione della violenza di genere

Pelicot ha scelto di non avvalersi del diritto di celebrare a porte chiuse il processo contro il marito che per anni l’ha sedata e offerta in stupro a decine di uomini.

La decisione di Pelicot ha a che fare con la precisa volontà di spostare il peso della vergogna dalla vittima agli abusanti. Non è lei a doversi vergognare, ma loro.

Allo stesso modo, Gino Cecchettin, seguendo la strada indicata da sua figlia Elena Cecchettin, ha deciso di contribuire concretamente a cambiare la narrazione dell’omicidio di genere e l’educazione patriarcale da cui origina.

Lo sta facendo con le sue parole, con le risposte che dà ai giornalisti e con quelle che non dà. Lo sta facendo con la Fondazione Giulia Cecchettin, annunciata a poco meno di un anno dalla morte della figlia.

È un percorso da uomo non è avvezzo alle questioni di genere, fatto pubblicamente anche attraverso le pagine del libro “Cara Giulia. Cosa ho imparato da mia figlia” (Rizzoli, 2024), in cui si mette in discussione come uomo, prima ancora che come padre, che chiama in causa l’educazione e la responsabilità del genere cui appartiene. Soprattutto dà voce a Giulia Cecchettin e alle donne, non a chi le sottomette e le discrimina.

Fa cioè il contrario, di quello che stiamo facendo noi giornaliste/i, che dimentichiamo i loro cognomi e le loro storie e raccontiamo le vittime come cristallizzate nella violenza subita, mai attraverso le loro scelte attive e libere. E soprattutto ci concentriamo sui “bravi ragazzi” con cui empatizzare, e sui “mostri” in preda a raptus incontenibili da cui prendere le distanze, invece di raccontare gli abuser per quello che sono: figli educati a una cultura che la nostra narrazione avvalla.

È per questo che non voglio fare, né sentire più certe domande: per cambiare narrazione.
È una responsabilità nostra, non delle vittime, che pure lo stanno facendo al posto nostro.

“Prisma. Spunti per riflettere il presente” è una rubrica nativa social a cura di Ilaria Maria Dondi, che si pone l’obiettivo di uscire dalle polarizzazioni e guardare il mondo da punti di vista diversi per riappropriarci della complessità e delle sfumature. Questo è il contenuto social originale:

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