Le madri, il padre e la figlia di 5 vittime di femminicidio su prevenzione e colpevolizzazione

Dopo i femminicidi di Giulia Tramontano, di Pierpaola Romano e quello passato sotto silenzio stampa di Yrelis Peña Santana, tornano a fare discutere le parole di chi parla di prevenzione in chiave di "consigli da dare alle donne per non farsi ammazzare". Sui social la diatriba si è giocata da più parti con la solita logica delle squadre e a favore di polarizzazione che, si sa, è tanto cara all'algoritmo quanto nemica giurata della complessità necessaria, soprattutto se si sta parlando di un fenomeno culturale e sistemico quale è il femminicidio. Di seguito, abbiamo cercato di fare un'altra cosa ancora: dare voce ai famigliari di donne vittime di femminicidio. Perché accanto a ogni donna che muore, ci sono altre vittime cosiddette 'secondarie' che, appena si spengono i riflettori mediatici sul femminicidio della persona amata, vengono abbandonate da tutti i punti di vista.

Le donne presenti in questa foto sono morte di femminicidio. Tutte.

La bambina nella prima fila, in alto a sinistra, è Laura Russo. Aveva 11 anni. A ucciderla a coltellate nel sonno fu il padre, nell’agosto del 2014, con il preciso intento di infliggere alla madre il dolore più grande. Dopo aver finito con la bambina, l’uomo si accanì anche sulla sorella Marika, all’epoca 14 anni, miracolosamente sopravvissuta grazie all’intervento dei fratelli e dopo aver passato mesi tra la vita e la morte. Alla sua destra, c’è Giordana Di Stefano, 20 anni, danzatrice e mamma di Asia, che aveva solo 4 anni quando, il 6 ottobre del 2015, il padre uccise la mamma con 48 coltellate.

Monia Del Pero chiude la fila in alto: strangolata a 19 anni dall’ex, nella notte del 13 dicembre del 1989. L’assassino, suo coetaneo, partecipò per tre giorni alle ricerche dalla ragazza nel tentativo di sviare i sospetti. Quello di Monia Del Pero è uno dei tanti femminicidi di cui non si ricorderebbe più nessuno se la madre, Gigliola Bono, non stesse mandando avanti una battaglia coraggiosa e solitaria contro lo Stato italiano.

La stessa cosa si può dire di Lia Rizzone Favacchio, che apre la seconda fila. La donna fu uccisa a fucilate dal marito il 24 settembre 1973. Con lei quel giorno c’era una delle due figlie, Francesca Nifosi, allora cinquenne. La bambina assistette al femminicidio della madre.

La quinta donna di quest’immagine è Nicole Lelli, uccisa a 23 anni dal suo ex compagno, il 16 novembre 2016. Quella sera Nicole fu raggiunta all’uscita di un locale da ballo dal ragazzo che, poco dopo essere partito con l’auto su cui l’aveva condotta per un chiarimento, le sparò in faccia.

Femminicidio: tra educazione, prevenzione e/o colpevolizzazione

Dopo i femminicidi di Giulia Tramontano, di Pierpaola Romano e quello passato sotto silenzio stampa di Yrelis Peña Santana, tornano a fare discutere le parole di chi parla di prevenzione in chiave di “consigli da dare alle donne per non farsi ammazzare”. L’arena social si divide, spesso in modo netto, tra chi “dire a una donna di non accettare l’ultimo appuntamento significa fare victim blaming, e quindi colpevolizzare le vittime”; e chi sostiene la necessità di “fare prevenzione” e “insegnare alle donne a intercettare le situazioni di rischio, per difendersi”.

Solo nella logica della polarizzazione dei discorsi social a favore di polemiche, engagement e personalismi, si può pensare che le due posizioni siano rappresentate dallo slogan che ben sintetizza una necessità inconfutabile, cioè il cambio di un paradigma educativo e culturale:

Protect your daughter
Educate your son

La realtà però è ben più complessa di una riga netta su uno slogan, per quanto sacrosanto.

Non si salvano le donne dopo che le hanno ammazzate,

è una frase che Gigliola Bono, madre di Monia Del Pero, mi disse tempo fa dopo l’ennesimo femminicidio.
Il senso della sua affermazione era in realtà duplice:

  • da una parte, inquadrava la necessità di non attendere i tempi (lunghi) del cambio culturale e di fare prevenzione – ma prevenzione vera!;
  • dall’altra, metteva l’accento sull’opportunità di comprendere i tempi di questa prevenzione, che non possono essere confinati negli spazi di qualche talk televisivo nel solco mediatico del femminicidio del momento.

Perché in quel contesto sì che i “decaloghi” su come difendersi colpevolizzano la donna uccisa e, soprattutto, spostano il focus dai veri responsabili: cioè non solo il singolo femminicida, ma anche lo Stato e il sistema giuridico, valoriale e quindi educativo su cui si basa la nostra società tutta, che è sessista, maschilista, patriarcale.

Cioè, un allevamento intensivo di uomini intrisi di cultura del possesso, dello stupro e della violenza di genere, di cui il femminicidio è il punto più alto; non un raptus, né un momento di troppo dolore per amore, non follia. Se su quest’ultimo punto qualcuno nutrisse dei dubbi, basta che vada a leggere i fascicoli dei processi: (quasi) nessun femminicida – il quasi è inserito a beneficio del dubbio, sebbene al momento non siano note eccezioni a chi scrive – si pente mai davvero di aver ammazzato.

Non c’è dunque nulla da contrapporre, tra prevenzione ed educazione affettiva sentimentale.
C’è semmai da mettere sotto processo il sistema di prevenzione attuale, i codici rossi, i braccialetti elettronici, la giustizia garantista ma solo con lo stalker fermato quando compie l’atto finale di una lunga serie di atti vessatori, fisici e psicologici. Dice sempre Bono:

Quante donne denunciano, più e più volte, e non trovano per questo protezione?
Non sono tragedie, sono morti annunciate.

E c’è da mettere sotto processo il sistema educativo, tutto.
Della necessità di un’educazione affettiva, sentimentale e sessuale come materia curricolare, Gigliola Bono parla dagli Anni Novanta, ma non può né essere delegata ai familiari delle vittime di femminicidio, né può essere risolta in una giornata di studenti in lacrime di fronte alle loro testimonianze, magari delle medie o addirittura delle scuole superiori. Bisogna parlare ai bambini, sin dall’asilo.

La verità è che la scuola italiana – e una larga fetta dei genitori degli alunni che la frequentano – confonde l’educazione affettiva e sessuale con l’educazione a fare sesso (non è così!). E teme più la consapevolezza sessuale dei figli e, soprattutto, delle figlie, che la conta di quelle tra quest’ultime che saranno vittime di violenza di genere, sessuale e femminicidio.

Serve complessità per parlare di un fenomeno culturale e sistemico quale è il femminicidio. E serve approfondimento: non basta essere edotte o edotti su cosa accade prima, durante e subito dopo un femminicidio. Bisogna anche conoscere cosa accade dopo, anche decenni dopo, quando i riflettori e la nostra indignazione prêt-à-porter si spengono.

Per questo, di seguito, abbiamo cercato di fare un’altra cosa ancora: dare voce ai famigliari di donne vittime di femminicidio. Perché accanto a ogni donna che muore, ci sono altre vittime cosiddette ‘secondarie’ che, appena si spengono i riflettori mediatici sul femminicidio della persona amata, vengono abbandonate da tutti i punti di vista.

La parola ai famigliari di 5 vittime di femminicidio

Giovanna Zizzo, madre di Laura Russo, 11 anni
vittima di femminicidio

Giovanna Zizzo (foto tratta dal documentario di Roba da Donne) e Laura Russo

“Non ho seguito molto quello che è accaduto in questi giorni, perché mi fa troppo male.

Vedi, io ancora non so se quel giorno in cui il mio ex marito è venuto da me, sapendo che ero sola, aveva intenzione di uccidermi.

So che ebbi paura quando quella mattina mi chiamò per avere conferma che non ci fosse nessuno e che potessimo parlare in pace. Pensai anche di chiamare lì mio fratello, ma poi pensai: perché devo avere paura? Mi ha tradita, ma è il padre dei miei quattro figli, stiamo insieme da quando siamo ragazzini, siamo cresciuti insieme!
Quando arrivò mi chiese scusa, si sfogò, era tranquillo… Finché non arrivò mia zia. Allora si arrabbiò molto, era furente, mi chiedeva ‘Perché non me l’hai detto che veniva lei?’.

Io vivo con questo dubbio: magari era nei suoi programmi fare male a me, e poi si è accanito sulle mie figlie proprio perché è stato interrotto…

È giusto fare prevenzione. È giusto fare ciò che noi stiamo facendo (con Vera Squatrito, ndr), tu lo sai, per noi è una missione, Anche se a volte, di fronte a tutto questo, mi fermo e mi dico: cosa stiamo facendo? è tutto inutile. Ma dobbiamo continuare a lottare. Fosse anche per salvarne solo una. Fosse anche per cambiare la mentalità di un solo uomo”.

Gigliola Bono, mamma di Monia Del Pero 19 anni
vittima di femminicidio

Gligliola Bono (foto tratta dal documentario di Roba da Donne) e Monia Del Pero

Se hai un uomo violento, ogni sera, ogni incontro può essere l’ultimo appuntamento. Se un uomo violento decide di ammazzare una donna stai certa che l’ammazza. Quante donne denunciano, più e più volte. Non sono tragedie, sono morti annunciate.

Qual è l’ultimo appuntamento? Come si fa a saperlo? Magari esci per strada e quella persona che ti voleva ammazzare lo fa, senza darti nessun appuntamento.

La verità è che tante persone che oggi parlano di femminicidio lo stanno facendo solo perché ci sono i riflettori accesi su questi casi. Che rabbia! Tutti a chiedere interviste o a invitare le vittime di violenza agli eventi il 25 Novembre o l’8 Marzo. In quei due giorni lì tutti in prima fila; tutti a fare bei discorsi e a farsi vedere commossi o coinvolti, poi dal giorno dopo tutto come prima.

Di noi e soprattutto delle nostre figlie uccise non interessa più niente a nessuno.
E intanto continuano a morire donne come mosche.

Lo Stato riconosca le sue colpe e riconosca le vittime di femminicidio come ha fatto con quelle di mafia e di terrorismo. E i loro familiari.

Vera Squatrito, mamma di e tutrice della figlia di Giordana di Stefano, 20 anni
vittima di femminicidio

Vera Squatrito (foto tratta dal documentario di Roba da Donne) e Giordana Di Stefano

“Io non sono polemica con chi dice bisogna mettere in guardia le donne. Sono convinta sia necessario fare prevenzione, perché se è vero che cambiare l’educazione affettiva è necessario, è altrettanto vero che ci vuole tempo e intanto noi donne, è un dato di fatto, dobbiamo cercare di difenderci, per non finire ammazzate.

D’altra parte, qual è l’ultimo appuntamento? Nel caso di Giulia Tramontano non si può parlare di un ultimo appuntamento, visto che quella relazione non si era mai interrotta. Mia figlia è stata aspettata per ore dal suo ex in una via qua dietro casa: quando è arrivata, lui è salito in auto e l’ha scannata, letteralmente, con 48 coltellate.

E poi tu dimmi, come puoi pensare che l’uomo che ti ha detto di amarti, e che magari è il padre dei tuoi figli, ti possa scannare da un momento all’altro?

Sicuro è che ci sono contesti e momenti per fare prevenzione: non direi di non andare all’ultimo appuntamento quando sono appena stati commessi dei femminicidi. Perché allora sì, che sembra che stai dando la colpa alle vittime”.

Francesca Nifosi, figlia di Lia Rizzone Favacchio, 35 anni
vittima di femminicidio

Lia Rizzone Favacchio con una piccola Francesca Nifosi e quest’ultima oggi

La prevenzione è necessaria, per mettere le donne nelle condizioni di riconoscere i segnali della violenza e anche i suoi diritti. Ma il punto vero è di quale prevenzione stiamo parlando?

Perché se ci limitiamo a parlare di non accettare l’ultimo appuntamento quando una donna viene uccisa, allora quella non è prevenzione.

Serve educazione, serve un cambio di rotta cultuale. Dobbiamo parlare soprattutto ai bambini, ai ragazzi, agli uomini. Quando mia madre fu uccisa (fu una delle prime donne non sono nella Sicilia, ma nell’Italia degli Anni Settanta, a chiedere la separazione), era ancora in vigore il delitto d’onore.

Siamo figlie e figli di quella cultura lì. Servono investimenti veri, in campagne sulla violenza di genere e sul femminicidio, in progetti educativi capaci di andare oltre il solo 25 Novembre. Servono fondi ai centri antiviolenza, che invece sopravvivono sempre un po’ sotto la linea di galleggiamento. La presenza di noi familiari di vittime di femminicidio è utile perché è molto impattante, ma io non ho una formazione, se non la mia esperienza. Manca una formazione adeguata ai docenti perché servono persone formate, nelle scuole, ma sin dall’asilo.

Soprattutto, non dimentichiamoci che il problema della violenza maschile e l’uomo, e che questo è un problema degli uomini perché sono gli uomini che uccidono le donne. Quindi si dovrebbe fare tutto un discorso di prevenzione agli uomini.

Giovanni Lelli, papà di Nicole Lelli, 23 anni
vittima di femminicidio

Giovanni Lelli (foto Roba da Donne) e Nicole Lelli

“Sostenere che bisogna smettere di dire alle donne di ‘non accettare l’ultimo appuntamento’, o di tentare di metterle in guarda dai segnali della violenza di genere, perché bisogna educare gli uomini è giusto, in teoria. Ma purtroppo non siamo in un’aula di filosofia. È giusto fare educazione nelle scuola, farne di più, meglio e in modo più sistematico; come è fondamentale pretendere strumenti concreti contro la violenza di genere dallo Stato…

Ma nel frattempo, ogni giorno le donne vengono ammazzate, stuprate, picchiate, mutilate…
Dobbiamo scontrarci con la realtà, e la realtà è che, finché questa cultura maschilista e del possesso non cambia, le donne hanno bisogno di difendersi.

Patrizia Schiarizza, avvocata, presidente dell’Associazione “Il giardino segreto”
per gli orfani di femminicidio

Avvocata Patrizia Schiarizza

Non credo affatto che dire alle donne di non andare all’appuntamento voglia dire colpevolizzarle. Anzi lavorare sulla prevenzione ed intercettazione delle situazioni di rischio è fondamentale.

Chi lavora nei centri antiviolenza, sa bene che le donne in una relazione maltrattante spesso non hanno la lucidità per vedere i segnali di rischio e, soprattutto, sono sole. Condividere le esperienze con chi ha vissuto situazioni di rischio e/o violenza prima di loro e magari ne è uscita, vuol dire acquisire consapevolezza e sopratutto CONOSCERE il fenomeno della violenza, a partire dai cosiddetti reati spia.
Questa storia dell’appuntamento è paradigmatica: consigliare le donne a non andare vuol dire informarle del rischio sulla base di esperienze pregresse di altre donne purtroppo uccise e conseguentemente agire per PREVENIRE.

Ce lo dice anche Istanbul: dobbiamo acquisire dati sul fenomeno della violenza per conoscere ed attuare politiche di prevenzione.

Le storie delle vittime

Le storie di quattro di queste vittime di femminicidio sono state raccontate a Roba da Donne in altrettanti brevi documentari, che lasciamo di seguito affinché chi volesse ascoltare le loro parole possa farlo:

“La mia bambina uccisa dal suo papà”: Giovanna Zizzo, mamma di Laura Russo

“Le 48 coltellate a mia figlia”: Vera Squatrito, mamma di Giordana Di Stefano

“Il femminicidio di mia figlia”: Gigliola Bono, mamma di Monia Del Pero

Nicole Lelli, le lettere di mamma e papà alla figlia uccisa dall’ex perché libera

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