Dopo i segnali di recupero che si erano intravisti tra luglio e novembre, secondo i dati Istat il tasso di occupazione ha registrato un crollo drastico a fine 2020 – nonostante il blocco dei licenziamenti ancora in vigore – e grava per la quasi totalità sulla popolazione femminile. A dicembre sono stati persi 101mila posti di lavoro, ma la proporzione tra i sessi è completamente sbilanciata su un lato: 99mila sono donne, solo 2mila gli uomini.

Anche l’analisi sull’anno conferma questo trend: nel 2020, sono in tutto 444mila le persone rimaste senza lavoro, tra inattivi e disoccupati, di questi, 312mila sono donne. La realtà ci mette di fronte a un dato chiaro e, purtroppo, assai prevedibile: la crisi economica e sociale generata dalla pandemia da Covid-19 la stanno pagando soprattutto le donne.

E questo dato risulta ancora più tragico se si pensa che il tasso di occupazione femminile è di molto inferiore a quello maschile: siamo a 48,4% contro il 67,6% degli uomini. Per una questione numerica, sarebbe logico aspettarsi uno scenario simile – maggiore dunque per la parte maschile – anche di fronte al tasso di disoccupazione. E invece non è così: ciò significa che siamo nuovamente di fronte a un problema che è prima di tutto culturale.

Questa situazione è dovuta principalmente al fatto che il lavoro femminile continua a essere molto più fragile e precario di quello maschile. La forza lavoro femminile è composta in larga parte da partite iva e contratti deboli, che hanno tutele minime o inesistenti – basti pensare alle collaboratici domestiche – e che hanno consentito comunque il licenziamento anche in questo periodo in cui vige tecnicamente il blocco.

Non solo, sulle donne ricade ancora quasi completamente la cura della famiglia, la gestione dei figli e dei genitori anziani, ed è chiaro, purtroppo, come in una situazione come quella generata dalla pandemia, con la chiusura delle scuole e la crisi di buona parte dei servizi assistenziali e di cura, siano ancora le donne le prime a perdere il lavoro, quantomeno in una società patriarcale come la nostra in cui la questione della cura è ancora quasi completamente in mani femminili.

Ma la situazione continua a essere troppo grave e senza un piano di investimenti che consenta la ripartenza dell’occupazione femminile, l’intero Paese rischia di impantanarsi: a pagarla sarà l’intera economia e la salute sociale dell’intero sistema-Paese.

Azzurra Rinaldi, economista e tra le ideatrici de Il giusto mezzo, una campagna che si batte per riportare al centro del discorso economico la donna, sostiene che se il tasso di occupazione femminile arrivasse al 60%  – ad oggi siamo solo al 48,4% – il PIL crescerebbe del 7%. È per questo che, insieme ad altre donne della società civile e del mondo del lavoro, ha dato vita a questa campagna, per chiedere, soprattutto in questo particolare periodo della storia del Paese, un maggiore investimento di denaro per rimettere in moto l’occupazione femminile e iniziare a considerare finalmente le donne una leva di rilancio strategico e un motore di sviluppo sociale ed economico dell’intero Paese.

E al momento, il Recovery Fund non prevede un piano sistemico ampio e strutturato, se non misure minime e palliative, che sia in grado di rilanciare il lavoro femminile nel suo complesso, a partire da una rete efficiente di infrastrutture sociali che sono un aspetto cruciale per contribuire a liberare le donne dal lavoro di cura e garantire loro una maggiore sicurezza dal punto di vista professionale.

Fino a che non verrà adeguatamente affrontata la questione della fragilità del lavoro femminile con misure ampie e adeguate e le donne resteranno sempre le prime a essere sacrificate in termini di carriere e occupazioni, a rimetterci sarà ancora una volta l’intera economia del Paese e il suo tessuto sociale.

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