Non nascono più bambini. L’allarme sulla denatalità in Italia è ormai una costante, al punto che a pronunciarsi sull’argomento è arrivato addirittura anche Elon Musk.

Chissà perché, viene da chiedersi.

Forse perché chi non riesce ad averli e li vorrebbe trova davanti l’ostacolo di una delle leggi sulla fecondazione assistita più restrittive d’Europa, che Giorgia Meloni e il suo partito vorrebbero rendere ancora più stringente e punitiva.

Forse perché siamo ancora lontani dal garantire l’accesso agli asili nido al 33% dei bambini al di sotto dei 3 anni, un obiettivo prioritario per “rimuovere gli ostacoli alla partecipazione femminile al mercato del lavoro” secondo il Consiglio europeo di Barcellona del 2002. Forse perché ancora oggi ci sono intere zone del paese – come la Calabria, la Campania e la Sicilia – in cui solo il 10% dei bambini riesce accedere ai servizi per l’infanzia, con il risultato che uno dei due genitori deve lasciare il lavoro o smettere di cercarlo per stare con il bambino (indovinate quale dei due?).

Forse perché le politiche di maternità del mondo del lavoro sono così insufficienti che a rimetterci non sono (solo) le madri, ma anche chi madre non è: dalle donne senza figli, infatti, ci si aspetta una disponibilità illimitata e una flessibilità totale, pena l’essere stigmatizzate come “egoiste” quando “rivendicano il valore del loro tempo, o non accettano di subordinarlo od offrirlo in sacrificio a quello delle colleghe madri”.

Forse perché, per l’ennesima volta, di ampliare il congedo di paternità si parlerà (forse) in futuro. In autunno, portarlo a 90 giorni era sembrato possibile, poi la battuta d’arresto: non si trovano i soldi.

Forse perché le imprenditrici “emancipate” non si vergognano di dichiarare con orgoglio di assumere solo donne “anta” che non disturbano il lavoro h24 con questioni personali inopportune come matrimoni, separazioni o maternità indesiderate (dall’azienda, ovviamente).

La verità è che se si fanno pochi o pochissimi figli molto è dovuto al fatto che ancora oggi trovare un equilibrio tra lavoro e maternità è impossibile. Questo è vero non solo per chi è già madre, ma anche per chi sta per diventarlo.

Mentre i giornali incensavano “l’imprenditore buono” che assumeva a tempo indeterminato una ragazza che al colloquio aveva “confessato” di essere incinta – facendo solo quanto prescritto dalla legge, oltre che dall’umana decenza – le donne incinte continuavano a perdere il lavoro, o non riuscivano a trovarlo.

Anche se i dati sul lavoro e sulla disoccupazione femminile sono ben noti, avere un quadro preciso delle discriminazioni durante la gravidanza è molto difficile. Nel 2003 un’indagine Istat e Cnel su 50.000 neomadri aveva rivelato che il 6% delle donne rimaste incinta erano state licenziate, una percentuale a cui, però, devono aggiungersi contratti non rinnovati, colloqui saltati, promesse disattese e tantissime altre storie di ordinaria discriminazione.

M. è incinta di 25 settimane quando risponde all’annuncio di una grande agenzia di recruiting. Supera brillantemente il primo colloquio, aiutata dal dominio dell’ online dell’era covid: nello schermo, la pancia non si vede.

Prima del secondo step – il colloquio con la manager dell’azienda per cui la società sta selezionando una risorsa – iniziano i dubbi. Dirlo? Non dirlo? E, in caso, quando? Prima del colloquio, con il rischio che salti tutto? A inizio colloquio, con il rischio di pregiudicarne l’andamento? Alla fine, con il rischio che sia l’ultimo ricordo di lei e che l’interlocutrice si senta presa in giro?

Meglio prima che poi, decide. Contatta la recruiter, che le ha già inviato il calendar per l’appuntamento, e le spiega la sua “particolare” situazione. La risposta la sorprende:

Mi ha chiesto se non ero più interessata a quel tipo di mansione, perché prevedeva alcune giornate di trasferta all’interno della regione. Quando però le ho confermato che ero molto interessata e che avevo solo voluto essere onesta perché avrei dovuto assentarmi per il congedo di maternità mi ha rassicurata, dicendomi che ci saremmo viste l’indomani per il colloquio con l’azienda.

Poi, però, qualcosa cambia.

Mi ha ricontattato dopo qualche ora, dicendomi che per essere considerata per la posizione avrei dovuto dichiarare la mia disponibilità a rinunciare alla maternità e lavorare fino al parto, e immediatamente dopo. Se non ero disposta a farlo, non avrei potuto nemmeno fare il colloquio. Magari ero la persona più adatta per quel lavoro, ma non lo sapranno mai. Come avrei potuto accettare?

B., scopre di essere incinta quando il suo stage in un’agenzia di marketing “giovane e dinamica”, come direbbe qualcuno, sta per finire. È solo alla decima settimana, potrebbe non rivelare niente, invece decide di optare per la massima trasparenza e parla con l’amministrazione e il titolare.

Anche in questo caso, la prima reazione è rassicurante: ma certo che non ci sono problemi, figuriamoci, per chi li ha presi? Appena lo stage finirà capiranno qual è il modo migliore per inquadrarla nell’organico. Hanno solo bisogno di un po’ di tempo per capire qual è la forma contrattuale migliore.

Di nuovo, però, le cose cambiano: dopo settimane di rimandi, mezze parole, promesse disattese, il contratto garantito non arriverà mai.

È chiaro che non c’è alcuna intenzione di assumerla, ma anche a lei viene chiesto (indirettamente, stavolta) di rinunciare alla maternità: è proprio sicura di non poter lavorare subito dopo la nascita del bambino? Magari solo qualche ora al giorno? Del resto – glielo dicono chiaramente – che alternative ha? Chi vuoi che la assuma incinta?

Intanto, l’azienda si allarga, ma per lei non c’è posto.

Queste non sono due storie a caso, pescate tra le tantissime testimonianze disponibili: sono due episodi di cui chi scrive è stata personalmente testimone solo negli ultimi mesi.

Ad accomunarle però non c’è solo questo – né il fatto che a entrambe sia stato chiesto di privarsi del diritto alla maternità per poter anche solo sperare di poter lavorare – ma il fatto che tutte e due hanno deciso, contro quanto prescritto dalla legge (e anche contro il buonsenso), di essere oneste, rischiando di perdere il lavoro o di non trovarlo per instaurare o non pregiudicare un rapporto di fiducia con il datore di lavoro.

Fiducia. Uno dei leitmotiv quando si parla di maternità e lavoro è “eh ma le donne se ne approfittano”. Certamente ci sono dei casi di donne che hanno goduto indebitamente dei diritti riservati alle madri, casi che però non possono e non devono essere sfruttati per nascondere la verità: che a rimetterci sono quasi sempre le donne, e mai i datori di lavoro. Che in troppi casi, l’onestà non paga. Anche se la legge prescrive il contrario.

Secondo il Codice delle Pari Opportunità (decreto lgs n.198/2006), infatti, non c’è alcun obbligo d’informare il datore di lavoro o chi si occupa delle selezioni per le assunzioni. È vietata, infatti, «qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione». Una sentenza della Cassazione (n.9864/2002), inoltre, ha stabilito che lo stato di gravidanza non deve essere comunicato nemmeno se è quasi al termine o se la gestazione copre una parte rilevante della durata del contratto a tempo determinato.

Non solo: quando il datore di lavoro viene a conoscenza della gravidanza, non è ammesso alcun provvedimento o sanzione disciplinare: un’altra sentenza della Cassazione (n. 2244/2006), ha stabilito che in questi casi il licenziamento è illegittimo e discriminatorio.

Eppure, si continuano a festeggiare le assunzioni in gravidanza come eccezioni, frutto dell’animo gentile di imprenditori illuminati e non, come dovrebbero essere, la banale scelta della risorsa più adeguata per una posizione lavorativa. E, in fondo, se la retorica attorno a questi casi è così forte è perché, finché la narrazione sarà questa e non cominceremo a denunciare la discriminazione – e pretendere di vedere i nostri diritti rispettati – rimarranno esattamente questo: eccezioni.

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