Donne in carcere, tra punizione o rieducazione: le ragioni dell'abolizionismo

Nota bene: l’articolo è scritto al femminile plurale per ragioni statistiche, ma vuole essere inclusivo anche di tutte quelle persone che, pur non essendo donne, sono identificate come tali e vivono pertanto problemi simili a quelli esposti.

Il numero di donne in carcere in Italia non è aumentato in modo significativo negli ultimi decenni. Secondo l’ultima stima dell’associazione Antigone, a Gennaio 2023 nelle carceri italiane erano presenti 2.392 persone sessualizzate come donne, di cui 15 madri con 17 figli al seguito.

Solo il 4,2 % del totale. Tuttavia, la maggioranza delle donne detenute in Italia ha commesso reati non violenti, come furto o spaccio di droga. Nonostante questo, rappresenta una minoranza discriminata anche all’interno del sistema carcerario; ma vediamo perché.

La rieducazione e la cura delle donne in carcere

Da anni ci chiediamo se la detenzione sia la soluzione migliore per le donne che commettono reati. Gli esperti concordano sul fatto che la maggior parte delle donne detenute non rappresenta una minaccia per la sicurezza pubblica e sarebbe meglio se ricevessero cure e rieducazione invece di essere semplicemente punite. La rieducazione è particolarmente importante per le donne detenute, che spesso sono madri o caregiver di familiari anziani o disabili. La loro incarcerazione può causare un grave trauma emotivo ai loro cari, in particolare ai loro figli. Inoltre, molte di queste donne hanno già subito abusi o violenza domestica prima di finire in prigione, e la detenzione può aggravare il loro stato mentale e fisico.

La rieducazione potrebbe aiutare queste donne a superare i problemi di cui sopra, che le hanno portate a commettere reati, come la povertà, la dipendenza da droghe o l’alcolismo, la disoccupazione o la mancanza di accesso alle cure mediche. Potrebbe anche fornire loro le competenze e la formazione necessarie per trovare un lavoro una volta rilasciate.

L’Italia ha alcune iniziative di rieducazione nelle prigioni femminili, come corsi di formazione professionale, attività ricreative e programmi di assistenza per le donne madri. Tuttavia, ci sono ancora molti ostacoli da superare per garantire che tutte le donne detenute ricevano un’adeguata rieducazione. Primo fra tutti, il fatto che, per la legge, le attività femminili devono essere separate da quelle maschili. Ma se i numeri non ci sono, nessun servizio può partire.

Molto spesso, le detenute si ritrovano senza possibilità ricreative come il teatro, senza corsi che permettano loro di imparare un lavoro una volta uscite, senza educatori e senza personale per la riabilitazione. E, quindi, senza la possibilità di essere reintegrate nella società, o di ricevere cure psichiatriche adeguate.

Sarebbe importante che lo Stato adottasse politiche che mirano alla rieducazione e alla riabilitazione invece della semplice punizione. La rieducazione potrebbe aiutare queste donne a superare i loro problemi e a tornare ad essere membri produttivi della società, proteggendo così il benessere delle loro famiglie e della comunità.

Migranti o senza fissa dimora: le donne più vulnerabili

Le donne migranti o senza fissa dimora che finiscono in carcere rappresentano una situazione particolarmente complessa e difficile da gestire. Queste donne spesso sono vittime di povertà, disuguaglianza, discriminazione e violenza, e finiscono per commettere reati a causa delle loro condizioni socio-economiche precarie.

Le donne migranti sono particolarmente vulnerabili alla criminalità organizzata, alla tratta di esseri umani, allo sfruttamento sessuale e al lavoro forzato. Molte di loro finiscono per lavorare in condizioni terribili e ricevere salari bassi, il che aumenta la loro vulnerabilità alla povertà e all’insicurezza. In alcuni casi, queste donne sono costrette a commettere reati per sopravvivere, come il furto di cibo o di altre necessità di base.

Le donne senza fissa dimora, infine, spesso sono vittime di abusi fisici e sessuali, e finiscono per commettere reati come il furto o l’uso di droghe come mezzo di sopravvivenza e automedicazione. Queste donne spesso non hanno accesso alle cure mediche o all’assistenza sociale, il che aumenta la loro vulnerabilità e il rischio di finire in carcere.

Infine, tantissime donne transgender sono costrette a scegliere modi di sopravvivere considerati illegali perché non riescono a lavorare a causa della discriminazione subita.

Queste vulnerabilità incontrano sfide ancora più difficili all’intento del sistema carcerario. Si tratta di donne che spesso hanno bisogni specifici in termini di assistenza legale, sanitaria e sociale, ma che non hanno accesso a tali servizi a causa delle barriere linguistiche o culturali, o dei mancati finanziamenti da parte dello stato. Inoltre, la carenza di alloggi adeguati o di assistenza dopo il rilascio può aumentare il rischio di recidiva.

Per affrontare questa situazione, è importante che le autorità adottino politiche che mirano a garantire l’accesso alle cure mediche, all’assistenza legale e all’assistenza sociale per le donne vulnerabili che sono detenute. Inoltre, è importante che si sviluppino programmi di riabilitazione specifici per queste donne che tengano conto delle loro esperienze uniche e delle barriere linguistiche e culturali.

Ma come fare se manca l’assistenza anche alle donne che non hanno bisogni specifici?

Donne e carcere: come prevenire la ricaduta nella vita criminale

La ricaduta nel reato, nota anche come recidiva, è un problema comune tra le persone rilasciate dal carcere, comprese le donne. Tuttavia, le statistiche sulla recidiva per le donne sono spesso difficili da trovare e possono variare a seconda del paese, della regione o dello stato in cui le donne sono state detenute.

In Italia, il tasso di recidiva per le donne che escono dal carcere è generalmente più basso rispetto agli uomini, ma comunque significativo. Secondo un rapporto del Ministero della Giustizia italiano del 2020, il tasso di recidiva generale in Italia era del 44,3% per gli uomini e del 32,7% per le donne nel 2017. Questo significa che circa un terzo delle donne che escono dal carcere commette un nuovo reato entro tre anni dal loro rilascio.

Tuttavia, è importante notare che la recidiva dipende da molteplici fattori, tra cui la gravità del reato originale, le condizioni di vita e di lavoro dopo il rilascio, l’accesso ai servizi di supporto e la disponibilità di programmi di riabilitazione efficaci. Inoltre, la recidiva può essere influenzata anche dal sistema giudiziario stesso, tra cui la qualità della sorveglianza e l’efficacia dei programmi di reinserimento sociale.

Alle donne in carcere devono essere, in sostanza, garantiti diritti essenziali come condizioni igieniche specifiche, screening per la salute e i tumori femminili, assistenza sociale e psicologica volta a comprendere le dinamiche specifiche della violenza di genere, in grado di aiutare queste donne a superarle. È necessaria anche una formazione specifica sull’antirazzismo, la transfobia e in generale ogni tipo di discriminazione che le detenute hanno subito e subiranno al di fuori del carcere, ma anche per quella che incontrano una volta arrestate.

Solo una persona a cui sono garantiti i diritti basilari dell’essere umano può dare garanzie efficaci sulla probabilità di non commettere (o ricommettere) reati. E qui veniamo ad un tema importante, ovvero le alternative al carcere.

Il dibattito sull’abolizionismo

L’abolizione del carcere è un argomento molto dibattuto nell’ambito della giustizia penale. L’idea alla base di questa proposta è che il sistema penale attuale, basato sulla punizione e sulla privazione della libertà, non sia in grado di garantire una giustizia equa e una vera rieducazione per i criminali. Invece, l’abolizione del carcere propone un approccio alla giustizia penale che mette al centro la riparazione dei danni causati dalla criminalità e la prevenzione dei reati futuri. Oltre alla considerazione di chi commette il crimine come semplicemente una persona, che quindi viene messa al centro sulla base di principi universali di cura.

L’idea dell’abolizione del carcere è stata sviluppata negli anni ’70 da gruppi di attivisti e studiosi, in risposta alla crescente insoddisfazione nei confronti del sistema penale. L’abolizione del carcere si basa sull’idea che le carceri non siano in grado di risolvere i problemi sociali e di criminalità, ma piuttosto contribuiscano a perpetuare la marginalizzazione e l’emarginazione sociale.

Secondo gli abolizionisti, la giustizia penale dovrebbe concentrarsi sulla prevenzione dei reati attraverso l’educazione, la riabilitazione e il sostegno alle vittime, anziché sulla punizione. In pratica, ciò significa sostituire le carceri con programmi di rieducazione e di sostegno che mirano a riparare il danno causato dal reato e a prevenire la recidiva.

Alcuni esempi di programmi alternativi all’incarcerazione sono già in uso in diversi paesi del mondo. Ad esempio, nei Paesi Bassi, i programmi di rieducazione dei detenuti si concentrano sulla riabilitazione e sulla prevenzione dei reati, piuttosto che sulla punizione. In Norvegia, il sistema penale si concentra sulla riabilitazione attraverso programmi di lavoro e di formazione, con l’obiettivo di reintegrare i detenuti nella società.

Tuttavia, l’abolizione del carcere è ancora un’idea controversa e ha incontrato resistenze da parte di coloro che vedono il carcere come una forma di giustizia e di deterrenza per i reati. Inoltre, la realizzazione dell’abolizione del carcere richiederebbe una riforma radicale del sistema giudiziario e della società nel suo complesso, e potrebbe richiedere molto tempo e risorse.

I sostenitori dell’abolizione del carcere provengono da una vasta gamma di discipline, tra cui il diritto, la sociologia, la filosofia, la politica e l’attivismo sociale. Nelle loro fila troviamo Angela Davis, filosofa, attivista per i diritti civili e studiosa della giustizia penale, Ruth Wilson Gilmore, sociologa e attivista, una delle principali teoriche dell’abolizione del carcere, la scrittrice Mariame Kaba, l’avvocato Byan Stevenson e il professore di sociologia Alessandro De Giorgi.

Molti di questi esperti hanno il focus delle loro teorie sul razzismo e l’ineguaglianza del sistema carcerario. Mi spiego meglio: le condizioni di partenza sono fondamentali quando parliamo di possibilità di commettere un crimine. La povertà, la discriminazione sistemica, la mancanza di accesso a un’istruzione adeguata, a un lavoro che non sia sfruttamento, ai sistemi di cura e ai servizi di comunità sono tutti fattori in grado di contribuire alla criminalità di un individuo.

Se non hai necessità primarie insoddisfatte, insomma, è molto più difficile che tu sia costrettə a commettere un reato per sopravvivere. Sembra semplice, eppure è difficile da far capire a chi sostiene la banalità della “punizione” come mezzo di rieducazione, o peggio, come allontanamento perenne dalla società per chiunque commetta un crimine. Cerchiamo di non credere al giustizialismo fine a se stesso e proviamo, insieme, a costruire sistemi basati sulla cura, la comprensione e la fratellanza. Sistemi di equità e mutuo soccorso.

In sintesi, l’abolizione del carcere propone un approccio alternativo alla giustizia penale che mette al centro la riparazione dei danni causati dalla criminalità e la prevenzione dei reati futuri, attraverso programmi di rieducazione e di sostegno. Sebbene l’idea sia ancora controversa e difficile da attuare, la discussione sulla giustizia penale alternativa è un tema importante che merita attenzione e dibattito, soprattutto per quanto riguarda il carcere femminile, in cui vengono commessi reati di minore entità e in cui le disuguaglianze della società sono ancora più evidenti (ad esempio, quante ragazze madri lasciate sole a provvedere a loro e ai propri figli, per mancanza di educazione maschile? E potremmo andare avanti all’infinito).

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