Abbiamo già romanticizzato il primo femminicidio dell’anno: quello di Eliza Stefania Feru

Da lettori e da lettrici, non dobbiamo più accettare articoli come quelli che abbiamo letto in questi giorni. Segnaliamoli, pretendiamo dai giornalisti, dalle giornaliste e dalle redazioni competenza, serietà e responsabilità. È un nostro diritto di cittadine e cittadini. È il nostro dovere di giornaliste e giornalisti!

Il primo femminicidio del 2025 è avvenuto a soli quattro giorni dall’inizio dell’anno.
La prima vittima di femminicidio del 2025 è Eliza Stefania Feru, 30 anni, uccisa dal marito Daniele Bordicchia, 39 anni, che si è poi suicidato.

È il primo femminicidio dell’anno e già è stato raccontato dalla stampa nel modo peggiore possibile con Bordicchia che è il primo “bravo ragazzo” del 2025 che fa fuori la donna “che amava troppo”.
Urge parlare, subito, della responsabilità dei media e di cattivo giornalismo.

Il femminicidio di Eliza Stefania Feru. I fatti

Secondo le prime ricostruzioni, Eliza Stefania Feru si trovava sul divano in salotto quando Bordicchia, che di mestiere faceva la guardia giurata, le avrebbe sparato il colpo mortale con la pistola di ordinanza. L’uomo si sarebbe poi recato in camera da letto dove avrebbe rivolto l’arma contro se stesso.

I corpi di Eliza Stefania Feru e del marito Daniele Bordicchia sono stati trovati la mattina del 5 gennaio nell’abitazione che la coppia condivideva in via degli Ulivi a Gaifana, una frazione del comune di Gualdo Tadino, al confine con Nocera Umbra in provincia di Perugia, ma è probabile che il delitto sia avvenuto la serata del 4 gennaio 2025.

Il movente, secondo gli inquirenti, andrebbe ricercato nei “dissidi coniugali” della coppia, che si era sposata a maggio scorso. Dalle informazioni raccolte, risulta infatti altamente plausibile che Eliza Stefania Feru fosse in procinto di lasciare definitivamente Bordicchia, dopo un primo allontanamento cui era seguito un tentativo di riconciliazione.

Come narrare un femminicidio in maniera sbagliata

Il pattern, tristemente ricorsivo, è quello che accomuna un po’ tutti i femminicidi, in cui l’uomo – familiare o persona legata da relazione o intenzioni sentimentali alla vittima – uccide la donna in quanto femmina che sfugge al suo controllo e al potere maschile.

Eppure, molta stampa italiana ha iniziato l’anno dimostrando di non essere (ancora!) preparata e formata per raccontare e analizzare i femminicidi come fenomento culturale e sistemico, e non come singolo generico omicidio.

Peggio ancora: giornalisti e giornaliste hanno (di nuovo!) romanticizzato la figura dell’assassino, descrivendolo come il “bravo ragazzo” “devoto” a Eliza, alla quale dedicava incredibili dichiarazioni d’amore. In un articolo pubblicato su La 27esima Ora, Elisa Messina sottolinea come, il 2025 si appena iniziato, è già è tornato il «bravo ragazzo», quello di cui i vicini dicono ogni bene, l’uomo mansueto, gran lavoratore, innamoratissimo soprattutto, l’uomo che “non si era mai rassegnato alla fine della storia d’amore”.

Questa narrativa è pericolosa. Ribadirlo dovrebbe essere inutile, ma evidentemente non lo è.

Ridurre un femminicidio a una tragedia sentimentale significa distogliere l’attenzione dalla dinamica di potere, possesso e controllo che è alla radice della violenza di genere.

Presentare l’assassino come un uomo “mosso dall’amore” non è solo un insulto alla memoria della vittima, ma una legittimazione implicita di comportamenti sociali che finiscono per essere romanticizzati e giustificati. L’amore non uccide. Il controllo, la violenza e il patriarcato sì.

Nel caso particolare di Bordicchia, del resto, stiamo parlando di un uomo che sui social scriveva di sé:

«Sono molto sensibile. Ho un cuore grandissimo. Non mi piace essere preso in giro. Dico sempre come la penso e affronto il problema da solo».

Oppure:

«10% testardo, 20% perfido, 70% vendicativo, 100% pazzo».

E ancora:

«Se mi rispetti io ti rispetto altrimenti ti cancello dalla faccia della terra».

Dare spazio alla narrazione del ragazzo fragile, che stravedeva per la moglie, è un gesto irresponsabile da parte della stampa, che tra l’altro ha violato, in questa come in altre occasioni, vari punti del Manifesto di Venezia, carta deontologica cui sono tenute e tenuti ad attenersi giornaliste e giornalisti nel raccontare la violenza di genere, con particolare riferimento al n. 10:

10. nel più generale obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio, evitare:
a) espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o svalutative dell’identità e della dignità femminili;
b) termini fuorvianti come “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento;
c) l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale” o “oggetto del desiderio”; d) di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via.
e) di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece da chi subisce la violenza, nel rispetto della sua persona.

Si aggiunga l’utilizzo inaccettabile di immagini che mostrano la vittima felice insieme al suo assassino (la romanticizzazione, di nuovo!).

Siamo solo all’inizio del 2025

Eliza Stefania Feru è la vittima numero 1 di quest’anno. Un’altra donna di 39 anni si è salvata per un soffio, lunedì 6 gennaio, dopo essere stata accoltellata con un coltello da cucina nel parcheggio del supermercato Lidl a Seriate, comune dell’hinterland di Bergamo.

È stata la stessa vittima, salvata dall’intervento di alcuni passanti, a indirizzare subito le indagini affermando: «È stato mio marito». Un 48enne, già denunciato e condannato per maltrattamenti in famiglia, che dal primo ottobre scorso non era più sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento.

Cambiare la narrativa del femminicidio per cambiare la cultura

Ogni femminicidio è un fallimento collettivo: della società, delle istituzioni e della cultura che ne crea e ne giustifica il contesto. La responsabilità dei media è enorme: i giornali non possono più permettersi di raccontare queste storie con un linguaggio che giustifichi la violenza o non ne riconosca la matrice.

Da lettori e da lettrici, non dobbiamo più accettare articoli come quelli che abbiamo letto in questi giorni.
Segnaliamoli, pretendiamo dai giornalisti, dalle giornaliste e dalle redazioni competenza, serietà e responsabilità.
È un nostro diritto di cittadine e cittadini. È il nostro dovere di giornaliste e giornalisti!

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