Tra i 444mila posti di lavoro persi nel 2020 – il 98% dei quali occupato da donne – c’è anche quello di Francesca Bubba.
In una società che vuole che le donne facciano figli ma discrimina la maternità sul lavoro, la pandemia delle mamme, collaterale a quella da Covid-19, ha chiuso nelle case molte ex lavoratrici con figli, dando per scontato toccasse a loro farsi carico della prole e del ruolo di caregiver durante i vari lockdown.

In un mondo del lavoro che considera le donne un costo, e la maternità una calamità professionale, la gravidanza di Bubba, oggi divulgatrice, arriva in un contesto globale in cui aziende e politica di fonte all’emergenza coronavirus non hanno fatto neppure finta di considerare il lavoro femminile una risorsa. Tanto più quando ci si trova di fronte a una gravidanza con complicazioni, come quella che racconta l’attivista e creatrice digitale:

Ho iniziato a soffrire di iperemesi gravidica: stavo malissimo, ho perso dieci chili, vomitavo di continuo e non riuscivo neppure a nutrirmi. Sul lavoro mi dicevano “Tre mesi e passa tutto”, o “Mia moglie non vomitava così”: delegittimavano il mio star male, pensavano stessi approfittando della situazione per non lavorare e mi hanno fatto il vuoto intorno e la pandemia è diventata l’alibi perfetto. Invece di supportarmi, mi hanno demansionata fino a costringermi ad andarmene. 

La storia personale di Bubba è la storia politica di molte, moltissime donne; dove l’aggettivo politico è da intendersi proprio in senso etimologico, come relativo a chi vive la polis, quindi all’essere donne e cittadine nel sistema società. Ed è proprio dal personale che diventa politico – parafrasando lo slogan attribuito a Carol Hanisch – che Bubba sceglie di fare della maternità la sua forma di attivismo, fino a diventare uno dei volti social più noti del dibattito, nonché promotrice di una proposta di legge per il diritto salariale del lavoro domestico e di cura a fronte di alcuni requisiti (tra gli altri Isee minimo e presenza di minori di tre anni).

Lo scopo della proposta di legge è tutelare i nuclei familiari più a rischio, tra cui ci sono anche quelli monogenitoriali. Ma il mio obiettivo è anche quello di lavorare, a monte, alla creazione di una coscienza collettiva sul tema. Si parla tanto di denatalità, si esalta la maternità e se ne dà una narrazione romanticizzata che, però, non corrisponde ai fatti, né ai numeri. Nel 2020, dei 42mila licenziamenti tra neo genitori, il 77 per cento è stato fatto a danno di neo mamme.

L’emergenza Covid-19, del resto, ha solo mostrato con onestà il livello di considerazione attribuito al lavoro femminile: da sempre subordinato a quello maschile e considerato o un di più, o un contributo integrativo volto, nel caso di nuclei familiari con figli, a coprire le spese di asili nidi, babysitter o professionisti dell’assistenza: compiti cioè ritenuti ‘da donna’, che se arriva una pandemia a chiudere strutture sanitarie e scuole, ci si aspetta che le donne riprendano in mano.

I dati del cosiddetto maternity wall sono un elenco infinito di numeri che raccontano la discriminazione sistemica delle madri lavoratrici e, più in generale, delle donne sul lavoro, perché potenzialmente madri o perché libere da figli e, quindi, considerate perennemente disponibili.

Citarne alcuni – tratti dal report di Save The Children, Le equilibriste: la maternità in Italia nel 2022 – è utile per comprendere un contesto professionale fortemente discriminatorio, in cui meno di una donna su due lavora e, tra queste, il 49,6% ha un contratto part time (a fronte di una percentuale che negli uomini è al 26,6%). Nel 61,2% dei casi i part-time femminili sono involontari e, spesso, sono legati alla ricorrenza della maternità e alla necessità della cura: tant’è che solo nel 2020 le dimissioni volontarie hanno riguardato per il 77,4% le madri e solo per il 22,6% i padri.

Cosa significa rinunciare o essere costrette a rinunciare al lavoro per occuparsi dei figli?
La rinuncia al lavoro colpisce le donne sotto molteplici aspetti. C’è un fattore di realizzazione personale che attacca la nostra sfera emotiva e ci espone a un rischio infelicità e salute mentale maggiore, ma c’è anche un fattore soldi che ci mette in condizione di dipendenza economica. Per intenderci, tre donne su dieci non hanno un proprio conto corrente e il 60%, in caso di separazione, si ritrova nell’indigenza. Questo significa anche che molte donne non possono scegliere di lasciare compagni o mariti, neppure quando violenti o abusanti. La dipendenza economica è direttamente correlata alla cosiddetta violenza economica, che sfrutta la subordinazione della partner e porta con sé le altre forme di violenza domestica, psicologica, fisica, verbale. Riconoscere il cosiddetto lavoro non retribuito, quello ciò di cura dei figli e della casa o di familiari con bisogno di assistenza, significa riconoscere a tutti gli effetti il lavoro, quindi il compenso: è l’unico modo per dare dignità e soprattutto libertà a chi lo fa. I soldi sono uno strumento di emancipazione e di libertà.

Nella proposta di legge per il diritto salariale del lavoro domestico e di cura che hai presentato, hai quantificato il valore economico che spetta alle madri o, più in generale, al genitore che si occupa del nucleo familiare. Come?
Abbiamo quantificato: nel senso che per presentare questa proposta di legge mi sono avvalsa di un team di economiste e di legali; da sola non avrei potuto fare nulla. Abbiamo iniziato mettendo nero su bianco tutte le attività che le donne o la persona che si occupa di lavoro domestico e cura svolge ogni giorno, peraltro con reperibilità H24, senza ferie, cartellini da timbrare, eccetera. Nel dettaglio, le attività identificate attengono agli ambiti cucina, pulizia, animazione, trasporto, bilancio familiare educazione. Abbiamo calcolato, con il supporto dei dati Istat, dalle 40 ore settimanali, quando va bene, alle 60 per le persone che non svolgono anche un lavoro salariato. A queste abbiamo applicato il metodo di sostituzione, un sistema lineare che si applica in economia per trovare un valore. In sostanza, ai singoli compiti abbiamo attributo il valore orario che riconosceremmo per quel lavoro se dovessimo pagare un altro o un’altra professionista per farlo.

Quanto vale il lavoro di cura e domestico?
Il valore economico del lavoro di cura e domestico equivale a 6.971 euro al mese.
La proposta di legge che – ribadisce Bubba – NON è un bonus casalinghe, prevede ovviamente un indennizzo non questo valore.

La tua proposta di legge non riguarda solo le mamme.
È nata pensando alla donne. L’80% del lavoro di cura pesa ancora su di noi: quindi spesso parlo di donne e persone con utero perché sono la maggioranza schiacciante. Ma nella proposta includo anche quel porzione di padri e popolazione maschile che compie il lavoro domestico e di cura. Non si tratta di distinguere tra padri e madri, ma di pretendere una redistribuzione davvero equa dei compiti famigliari e il riconoscimento di chi li svolge.

La proposta comprende anche un indennizzo per la deprivazione di sonno. Di cosa si tratta?
Quasi la totalità dei genitori, di nuovo soprattutto madri, incorre nei primi anni di vita del figlio in una privazione del sonno che ha effetti fisici e mentali invalidanti, e che va riconosciuta. Inoltre, nella proposta si chiede il prolungamento dei congedi di maternità e paternità secondo la maggioranza europea.

A che punto è questa proposta di legge?
È in Cassazione, e probabilmente con questo governo ci morirà pure. Ma continueremo a ripresentarla, se necessario, fino allo sfinimento. 

Sui social scrivi: “La maternità è la mia forma di attivismo”. Cosa significa per te attivismo.
Fare un figlio è e deve essere una scelta, ma oggi più che mai è anche un atto rivoluzionario, nonché una responsabilità verso il mondo intero e il futuro. La maternità è un atto politico, su cui si gioca la discriminazione di molte donne e persone con utero. Attivismo per me significa creare un luogo sicuro, uno spazio protetto e una nuova narrazione sana e più autentica di contro alle logiche della maternità performativa e sacrale, che affatica e discrimina le donne e le persone con utero, ma affligge anche i padri. Dal mito capitalistico del multitasking femminile al sacrificio come forma d’amore, fino all’istinto materno e alla pretesa che ci sia solo un modo per essere una buona madre: decostruire questi e altri stereotipi tossici della maternità, è questo il mio attivismo.

Sebbene non se ne sia parlato nel corso dell’intervista, l’attivismo femminista di Bubba contempla la lotta per i diritti riproduttivi e, quindi, anche per il diritto all’aborto, troppo spesso trattato in modo oppositivo: da una parte le madri, dall’altra le non madri (donne childless o childfree). Cosa falsa anche a livello statistico: i dati ci dicono che la maggior parte delle donne che hanno abortito, o sono già madri o lo diventeranno più avanti. Sul tema, Bubba ha così intrapreso un’attività di divulgazione in collaborazione con Federica Di Martino, psicologa, femminista, co-fondatrice della community italiana IVG Ho abortito e sto benissimo, nonché contributor di Roba da Donne.
Il che ci introduce all’ultimo tema dell’intervista: il femminismo, che non è sempre stato, e a oggi non sempre è, molto accogliente nei confronti delle madri.

Ogni madre femminista conosce l’ambivalenza di sentirsi spesso delegittimata dal femminismo in quanto madre, e dalla cultura maschilista perché femminista. Come se ne esce?

“Ti sei sposata, hai fatto un figlio?  Allora sei un ancella del patriarcato”. Ho sofferto molto questo problema. Il fatto è che il femminismo intersezionale mette in contatto una serie di intersezioni e minoranze, ma le mamme non sono una minoranza, tanto meno oppressa, e quindi è difficile collocarsi in questa intersezione. Da una parte bisognerebbe decostruire, me ne rendo conto, dall’altra il femminismo è un luogo sicuro per molte persone… Così a volte penso che la maternità necessiti di un femminismo a parte. Ma è ancora un pensiero in fieri, non un’idea statica.

Su quest’ultimo tema si apre un piccolo dibattito: abbiamo idee opposte, il che contrariamente da quanto spesso si pensi è bello. Apre a una nuova possibilità di confronto su un tema troppo ampio per essere affrontato qui. Ci ripromettiamo di tornare a parlarne, insieme.

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