Lo hanno trovato così, nel carrello di atterraggio di un aereo Air France proveniente dalla Costa D’Avorio, cui si era aggrappato al momento del decollo. Per giorni era rimasto senza nome, fino a quando il Ministero dei Trasporti francese non ha rilasciato una nota:

Si tratta di Ani Guibahi Laurent Barthélémy, nato il 5 febbraio 2005 a Yopougon (grande quartiere popolare di Abidjan), alunno di IV classe, la cui identità è stata confermata dai genitori.

Da allora, da quel 7 gennaio, di Ani non si è più saputo nulla; e neppure del suo corpo, che la sua famiglia supplica di riavere, affinché possa dargli almeno una degna sepoltura.

È stata la saggista Chiara Alessi ad aver raccolto le parole di Ani Oulakolé Marius, il padre, della sua compagna e madre adottiva di Ani, e del figlia di quest’ultima, sorella coetanea del ragazzino. Già, perché di quel “riconoscimento” effettuato dalla famiglia in realtà è stata data una versione non veritiera. I genitori hanno riconosciuto solo lo zaino di Ani, ma non hanno mai potuto vederlo.

A dare voce ad Ani, oltre a Chiara, è il thread che un utente di Twitter che si fa chiamare come un noto criminale tedesco, Johannes Bückler, ha pubblicato, diretto al presidente francese Emmanuel Macron.

Dove mi trovo? Non ne ho la più pallida idea. Ho tanto freddo e l’unica cosa che desidero è tornare a casa dai miei, dal mio papà, dalla mia mamma e dai miei fratelli. Per avere ancora un bacio da loro. Un ultimo bacio.

Mi avete conosciuto l’8 gennaio 2020, quando Air France ha confermato che ‘il corpo senza vita di un clandestino’ è stato scoperto nel pozzo del carrello di atterraggio di un Boeing 777 che collegava Abidjan a Parigi-Charles de Gaulle.

Di chi era il corpo di quel clandestino senza vita? Il mio. Almeno così dicono. So che voi mi chiamate semplicemente Ani. Mi piace. Ma il mio nome completo è Prince Ani Guibahi Laurent Barthélemy. 14 anni.

Nessuno riesce a spiegarsi perché la famiglia di Ani non sia stata fatta salire sul primo volo per Parigi per riconoscere il corpo del bambino; nessuno si spiega perché i funzionari ivoriani premano affinché i genitori firmino il foglio che attesta il decesso di Ani, senza che abbiano avuto neppure la possibilità di vederlo.

La procura di Bobigny, dopo aver accertato le cause del decesso e identificato il corpo, ha chiuso il caso, dicendo di non essere “competenti per il rimpatrio del corpo”. Ma ci sono dei particolari inquietanti che emergono dai video che immortalano Ani mentre raggiunge l’aereo e da altri dettagli: prima di tutto, c’è il lungo tragitto, ben 30 chilometri, per arrivare all’aeroporto di Abidjan, percorso che Ani non avrebbe compiuto da solo: nei taccuini compaiono infatti i nomi di due ragazzi, che lo avrebbero aiutato a raggiungere l’hangar dove si è nascosto prima di salire sull’aereo.

Ma la sua presenza non è passata inosservata, tanto che, due ore prima della partenza dell’AF703 per Parigi, era stato chiesto ai Vigili del fuoco di verificare cosa stesse accadendo in pista.

Tuttavia, nessuna ispezione ufficiale emerge dagli atti. Tanto che adesso tre agenti incaricati di controllare i confini dell’aeroporto sono stati fermati e interrogati nei giorni scorsi.

Ma c’è anche il video, registrato nei nastri della videosorveglianza dell’aeroporto, in cui si vede Ani raggiungere l’aereo: ventotto secondi in cui l’aereo si è fermato, e lui è riuscito a salire tra le ruote e i tiranti del carrello.
Il bambino, che probabilmente era nascosto dietro un cespuglio, poteva saltare sull’aereo soltanto in quei 28 secondi prima che l’aereo desse gas. Non poteva saperlo. Qualcuno deve averglielo detto. Dobbiamo trovarlo.
Ha spiegato una fonte a Repubblica.
Da un mese il corpo di Ani è in una delle celle frigorifere dell’Istituto medico legale di Parigi.
Vorrei abbracciarlo un’ultima volta.
Dice suo padre.

Ani è una delle tante vittime che, alla ricerca di un posto migliore, di una vita migliore, l’hanno persa; potremmo parlare di Oscar Alberto Martinez e della piccola Angie Valeria, il papà salvadoregno morto affogato con la sua bimba nel Rio Grande nel tentativo di raggiungere l’El Dorado americano; o di Aylan, annegato nell’ottobre del 2015 davanti alla spiaggia di Bodrum, paradiso turistico della Turchia, con ancora indosso la sua maglietta rossa e i pantaloncini scuri.

Potremmo parlare del bambino il cui corpo è stato recuperato in mare con la pagella cucita sulla giacca affinché, una volta raggiunta l’Italia, tutti potessero vedere quanto fosse bravo a scuola e volenteroso.

Perché, se a differenziare le storie di ciascuno di loro erano il Paese di provenienza o quello dove avrebbero voluto arrivare, a unirli è invece la stessa cosa: un sogno, che erano pronti a raggiungere a qualunque costo, ma per cui, invece, hanno dato la vita.

Per chi resta, però, per le famiglie, gli amici, i parenti, è importante sapere che, pur se non arriverà mai la consolazione a lenire il dolore, è legittimo avere almeno una tomba su cui piangere. Per questo la famiglia di Ani deve pretendere di avere giustizia e lottare affinché il corpo del loro bambino torni a casa, per riposare in pace.

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