Negli ultimi giorni il web si è mobilitato sulla questione Fukushima, a seguito di una notizia che ha destato grandi preoccupazioni. Nel 2011, l’impianto nucleare giapponese è stato coinvolto in un terribile incidente causato dal forte terremoto che, pochi minuti prima, aveva colpito la zona settentrionale del Paese.

La scossa tellurica, il cui epicentro era situato a pochi chilometri dalle coste della regione di Tōhoku, ha provocato uno tsunami che si è abbattuto proprio sulla centrale nucleare, provocandone la distruzione dei generatori di emergenza. Il disastro di Fukushima è ad oggi l’incidente nucleare più grave della storia dai tempi di Chernobyl, il secondo ad essere classificato al livello 7 nella scala INES.

Gli effetti della catastrofe nucleare si fanno sentire ancora oggi, e il tema è tornato decisamente in auge con la proposta del ministro dell’Ambiente giapponese, Yoshiaki Harada, di riversare l’enorme quantità di acqua radioattiva presente all’interno della centrale direttamente nell’oceano Pacifico.

Un’idea che ha seriamente scatenato scompiglio, tra chi ha subito pensato agli innumerevoli danni all’ambiente e all’ecosistema marino, e chi invece ha principalmente pensato alla nostra salute (quanti pesci verranno contaminati dalle radiazioni, e di conseguenza quanti rischi correremo continuando a nutrircene?).

Ma la realtà potrebbe essere ben diversa da quella che corre oggigiorno sui social: scopriamo i motivi per cui preoccuparsi per un presunto disastro ambientale sembra essere davvero eccessivo. A dimostrare questa tesi vi è l’approfondita analisi di Forbes, che riporta numeri in grado di dare il vero senso del problema e di ridimensionare decisamente la questione.

Che cosa sono le acque radioattive di Fukushima

Il primo, importantissimo dettaglio da chiarire riguarda il soggetto della questione: si parla di acque radioattive, ma da dove arrivano? In questi anni, i reattori nucleari di Fukushima sono rimasti spenti, ma le attività all’interno della centrale non si sono esaurite. Sebbene il funzionamento di un impianto di questo tipo non possa certo essere descritto in due righe, possiamo però provare a spiegare in maniera elementare cosa sta accadendo a Fukushima da quando si è verificato il disastro.

All’interno dei reattori distrutti, il decadimento dei prodotti di fissione continua a generare calore che rischia di danneggiare il nocciolo, con conseguenze gravissime. Per tenere sotto controllo questo calore è necessario introdurre nei reattori dell’acqua di raffreddamento, la quale, a contatto con i suddetti prodotti di fissione, si contamina e diventa radioattiva.

È per questo motivo che l’acqua di raffreddamento deve essere cambiata spesso: se dovesse avvenire un’accidentale perdita della stessa, i danni ambientali e per la salute dell’uomo sarebbero piuttosto preoccupanti. Ma le acque radioattive non possono certo essere disperse agevolmente, e da anni vengono accumulate in enormi cisterne: finora, sono stati stoccati ben 950 serbatoi, contenenti oltre 1 milione di tonnellate di acqua contaminata.

Al momento, il sistema di filtraggio delle acque riesce a ridurre notevolmente il livello di radioattività delle stesse, mantenendole al di sotto dei limiti di legge. Ma i radioisotopi di trizio, derivanti dall’idrogeno, non possono essere eliminati, ed è questo il motivo per cui le acque di raffreddamento non possono ancora venir smaltite nell’ambiente.

Tuttavia, il problema dello stoccaggio sta diventando sempre più importante: quanta acqua ancora potrà venire accumulata, aumentando così i rischi dovuti a un’eventuale perdita incidentale che andrebbe a contaminare fortemente l’ambiente circostante? Una perdita non diluita avrebbe infatti un impatto maggiore rispetto a quella in mare, inoltre il progetto di disperdere le acque nell’oceano non è certo una novità, dal momento che se ne parla dal 2013.

Il ministro Yoshiaki Harada, dopo le polemiche seguite alla sua dichiarazione, ha comunque voluto precisare come la sua fosse un’opinione personale e che non vi è al momento alcun piano ufficiale.

I pericoli delle acque radioattive riversate nell’oceano

A prima vista, l’idea di riversare più di una tonnellata di acqua contaminata nell’oceano Pacifico potrebbe sembrare pericolosissima. Il pensiero va subito all’inquinamento dell’ambiente marino, ai rischi della contaminazione di pesci che poi potrebbero finire sulle nostre tavole. Ma esaminando a fondo la questione scopriamo che in realtà la soluzione non è così terribile come sembra. Anzi, è probabilmente la migliore a lungo termine, visto che comporterà un cambiamento davvero minimo alla radioattività delle acque del Pacifico.

Ebbene sì, l’oceano è già di per sé radioattivo.

Dell’analisi sopracitata di Fobres non vogliamo riportiamo in maniera integrale le cifre mirabilmente elencate nell’articolo – potete leggerle da voi, se masticate un pochino di inglese. Ci limitiamo alle conclusioni, che sono davvero interessanti: le acque di tutti gli oceani del globo (il cui volume è circa il doppio rispetto a quelle del solo Pacifico) hanno una radioattività di circa 8,125,370,000 PBq – stiamo parlando di PetaBecquerel, ovvero un’unità di misura che vale 10^15 Becquerel.

La presenza di radionuclidi è perciò del tutto naturale: la radioattività di fondo permea l’intero nostro pianeta (e non solo), senza generare particolari problemi di salute nell’uomo.

I rischi si manifestano quando il livello di radiazioni è superiore a quello di sicurezza, cosa che accade quando un evento cataclismico o un incidente “umano” provocano danni alle strutture dedicate alla produzione di energia nucleare, per esempio. Ma non solo: le acque degli oceani sono contaminate per una pluralità di motivi, come i test nucleari condotti a partire dalla fine degli anni ’40 (quelli portati a termine sull’atollo di Bikini sono tristemente famosi).

Fukushima: le sue acque sono pericolose?

In questa visione ben più ampia della situazione radioattiva degli oceani, quanto può influire il riversamento delle acque di raffreddamento di Fukushima per l’ecosistema marino e la nostra salute?

La risposta è: quasi nulla, soprattutto se il procedimento viene effettuato in un lasso di tempo piuttosto lungo. Le acque contaminate sono infatti già state filtrate e l’unico isotopo in quantità elevate che rimane al loro interno è il trizio.

Un isotopo, a dir la verità, non molto pericoloso per l’uomo, dal momento che servono quantità elevatissime per provocare effetti sulla sua salute. Giusto per fare un paragone, una banana ha una concentrazione di potassio-40 (anch’esso un isotopo radioattivo) che causa danni all’organismo parimenti a quelli che provocherebbe la quantità di trizio presente in 5 litri d’acqua.

Nel caso in cui, quindi, si procedesse con la dispersione delle acque di Fukushima nell’oceano Pacifico, l’aumento della radioattività sarebbe davvero minimo. Soprattutto perché verrebbero adottate particolari misure di sicurezza volte proprio a ridurre l’impatto ambientale. Un secondo filtraggio, per eliminare eventuali isotopi residui, poi la diluizione graduale delle acque contaminate per diminuire la concentrazione di trizio. Un sistema, in definitiva, che non dovrebbe generare particolari allarmismi, soprattutto alla luce di ben altri comportamenti nocivi per gli oceani e l’ecosistema, che però avvengono senza che nessuno lanci allarmismi.

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