Gué Pequeno è un personaggio sicuramente controverso della scena rap italiana, con un passato anche televisivo – come coach in un’edizione di The Voice – e con idee chiare, e talvolta al vetriolo, sui colleghi.

Uno, insomma, che non ha certo paura di dire la sua, ma che spesso sembra anche non pensare alle possibili implicazioni che certi suoi discorsi possono avere, soprattutto sugli altri. Queste, ad esempio, sono le parole che ha usato nei confronti di Ghali in una recente intervista con Rolling Stones.

[..] un artista che va in giro vestito da confetto può andare bene per una sfilata ma non ha grande credibilità di strada. Cioè non è Stormzy [un rapper inglese, ndr.]: il tipo in Inghilterra non va in giro vestito da ananas. Io non sono razzista né omofobo ma vedere un rapper che va in giro vestito da donna con la borsetta mi fa ridere, che poi almeno fosse gay. Boh, sono robe assurde.

C’è più di un aspetto, nelle parole di Gué, che lascia perplessi; pur accettando per vero il fatto che non sia “razzista né omofobo”, rimane che il suo sembra uno di quei tanti discorsi dove la premessa porti a presupporre proprio il contrario. Un po’ sulla scia di quei famosi “non sono razzista, ma” o “non sono omofobo, ma“. Insomma, specificarlo sembra quasi un tentativo di “mettere le mani avanti”.

Il vero problema del discorso del rapper, però, è che, preoccupandosi di criticare Ghali che si veste di rosa, non fa altro che dimostrarsi un esponente di quella mascolinità tossica che non può prescindere da una separazione netta tra generi per quanto riguarda atteggiamenti, vestiti, e persino colori. Se pensate che certe affermazioni non sembrano così importanti, o che in quanto opinioni siano automaticamente innocue, vi invitiamo a leggere l’intervista che abbiamo realizzato a Teresa Manes, mamma di Andrea, che si è ucciso appena adolescente perché umiliato e deriso dai suoi compagni di classe a causa di un paio di pantaloni rosa.

È, sostanzialmente, anche il concetto espresso dall’avvocata e attivista per i diritti della comunità Lgbt Cathy La Torre in un post Facebook in cui ha replicato proprio alle parole di Gué Pequeno,

Caro Gué Pequeno – scrive La Torre – ti lamenti del fatto che la musica, oggi, sarebbe meno libera. Ma basta davvero poco, basta indossare il rosa, per portarti a circoscrivere la libertà di ciascuno.

A essere grave non è solo il fatto che lui abbia affermato “un rapper non dovrebbe essere così”, come se ci fosse un modo giusto e sbagliato di rappresentare un certo genere musicale; lo è ancor più quando dice “almeno fosse gay”, come a dire che, fosse stato omosessuale, sarebbe stato comprensibile vederlo vestito di rosa o portare una borsetta. Questo dimostra che l’intento non era “circoscrivere” lo stile rapper, quello, per intenderci, fatto di pesanti catene d’oro, jeans a vita bassissima e scarponcini, ma che la sua è proprio un’idea tossica volta a sottolineare che, se si è uomini ed etero, certe cose non ce le possiamo permettere.

E nel 2020 è questa tesi a essere davvero assurda, altro che i vestiti di Ghali.

Per trovare un altro esempio recentissimo di quanto l’ideale di mascolinità tossica sia radicato in molti di noi basta pensare allo smalto di Fedez, diventato oggetto di critiche davvero dure su Instagram, o ai vari outfit con cui Achille Lauro si è presentato sul palco del Festival di Sanremo o, ancora, le offese ricevute da Damiano del Maneskin per motivi simili.

Se è vero che il rap è una delle forme musicali nate con l’intento di esprimere la propria rabbia sociale, il malcontento per gli stereotipi culturali e per manifestare la propria ribellione, c’è da dire, come afferma anche La Torre, che a Gué Pequeno è bastato davvero poco per mostrare tutto il proprio conformismo: giusto una borsetta e un abito rosa.

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