L’Italia ha “violato i diritti di una presunta vittima di stupro”, con una sentenza che non ha “protetto i diritti e gli interessi” di quest’ultima dalla vittimizzazione secondaria, e che ha al proprio interno “dei passaggi che non hanno rispettato la sua vita privata e intima”, “dei commenti ingiustificati” e un “linguaggio e argomenti che veicolano i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana”. È quanto ha stabilito la Corte Europea di Strasburgo, che ha così inflitto al nostro Paese una pena pecuniaria, un risarcimento di 12mila euro per la vittima, oltre a 1600 euro per le spese.

Cifre irrisorie, a fronte dell’umiliazione subita in aula di tribunale, quando la Corte di Firenze l’aveva definita “un soggetto femminile disinibito, creativo, in grado di gestire la propria (bi)sessualità e di avere rapporti occasionali di cui nel contempo non era convinta”, ma parliamo comunque di una decisione importante, soprattutto alla luce anche dei più recenti casi di cronaca – su tutti quello in cui è coinvolto Ciro, il figlio di Beppe Grillo, ma anche il caso Genovese – che ci hanno indotto a considerare quanto ancora sia pesante e persistente il victim blaming.

Parliamo di una vicenda avvenuta nel 2008, quando una ragazza, all’epoca ventiduenne, ha denunciato uno stupro di gruppo avvenuto quattro giorni prima all’interno di un’auto nei pressi della Fortezza da Basso; i giudici di primo grado, nel 2013, avevano disposto la condanna a quattro anni e sei mesi per sei di loro, per violenza sessuale di gruppo aggravata “dalle condizioni di inferiorità fisiche e psichiche” della vittima, sotto effetto dell’alcol.

Ma solo a distanza di due anni la Corte d’Appello fiorentina aveva assolto tutti perché “il fatto non sussiste”, mettendo in dubbio la credibilità del racconto della ragazza con frasi come “ha mostrato gli slip rossi mentre cavalcava un toro meccanico”, e quella riportata poco sopra. La procura generale di Firenze, in quel caso, ha rinunciato al ricorso in Cassazione, facendo passare quindi la sentenza in giudicato.

Ma la ragazza che ha denunciato la violenza ha deciso di rivolgersi alla Corte di Strasburgo, non in merito all’assoluzione degli imputati, ma sul contenuto stesso della sentenza, che l’avrebbe discriminata e avrebbe violato la sua vita privata. La Corte, come detto, le ha dato ragione, con la motivazione che

È essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle loro decisioni, di minimizzare le violenze basate sul genere e di esporre le donne a una vittimizzazione secondaria con parole colpevolizzanti e moralizzatrici.

L’avvocata della presunta vittima, Titti Carrano, ha espresso soddisfazione all’Ansa per la sentenza.

La sentenza della Corte d’appello di Firenze ha riproposto stereotipi di genere, minimizzando così la violenza, e ha rivittimizzato la ricorrente, usando anche un linguaggio colpevolizzante. Purtroppo, questo non è l’unico caso in cui la non credibilità della donna si basa sulla vivisezione della sua vita personale, sessuale. Questo succede spesso nei tribunali civili e penali italiani. Per questo mi auguro che il governo italiano accetti questa sentenza della Cedu e non ricorra in Grande Camera ma intervenga affinché ci sia una formazione obbligatoria dei professionisti della giustizia per evitare che si riproducano stereotipi sessisti nelle sentenze.

Non è stata comunque una decisione unanime: a fronte di sei voti favorevoli (fra cui quello dell’italiano Raffaele Sabato) c’è stato anche il voto contrario del polacco Krzysztof Wojtyczek. La CEDU, come detto, non può ribaltare la sentenza della Corte fiorentina, ma questa decisione può rappresentare un passo davvero importante affinché nei tribunali le donne che denunciano uno stupro si sentano più imputate degli imputati stessi, come accaduto, nel passato, al famoso Processo per stupro andato in onda sulla Rai, o a Franca Rame.

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