La situazione a Ghouta, lembo di terra intorno alla capitale siriana, Damasco, resta drammatica. Una parola che suona come un eufemismo, che non riesce a spiegare affatto l’aria di terrore, di morte e di paura che si respira nella città assediata ormai da cinque anni, già vittima di un terribile attacco con armi chimiche nel 2013.

Tregua disposta dalle Nazioni Unite violata, così, da metà febbraio circa, i bombardamenti e i raid aerei sono ripresi, più feroci e veementi di prima. Inutile dire che il prezzo più alto di una guerra, in cui neppure gli organi di sicurezza come l’ONU o le grandi potenze mondiali sembrano riuscire a intervenire efficacemente, lo paghino i civili: donne, uomini, anziani, bambini. Famiglie che sono intrappolate in un paese che non gli appartiene più, che non è più la loro casa ma solo il teatro di un conflitto cruento, mortale, che loro non hanno voluto ma che, loro malgrado, si ritrovano a vivere da protagonisti.

Dal 18 febbraio, riporta TPI, le vittime registrate nella zona orientale della Ghouta sono state circa 930,  200 sarebbero bambini. Ma le cifre, già impietose, sarebbero ancora più alte secondo Medici Senza Frontiere, il quale stima che, tra il 18 febbraio e il 3 marzo, le strutture mediche supportate dalla ONG abbiano contato oltre 4.800 feriti e più di mille morti.

Sono numeri impressionanti, ma che non riescono a figurare davvero, nelle nostre menti, l’orrore che vive la popolazione siriana in questo momento.  E allora, lasciamo che a parlare sia una lettera, la lettera ritrovata nella tasca di una bambina uccisa durante gli scontri a fuoco. Le sue parole valgono più di ogni altra che possa mai essere pronunciata, più delle cifre, più dei discorsi retorici e dei colloqui tra superpotenze.

Mamma, papà, fratelli, sorelle e amici, vi voglio tanto bene, più di ogni altra cosa. Mi dispiace se ora sono morta e per la mia lunga assenza. Addio per sempre. Ci incontreremo nell’aldilà. Vi amo tutti.

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