A che punto siamo con la parità di genere?

Sappiamo che si tratta del quinto obiettivo per lo Sviluppo Sostenibile dell’ONU dell’Agenda 2030, che l’Unione Europea stia promuovendo la Strategia per la Parità di Genere già dalla programmazione 2016-2019, ora rinnovata 2020-2025, ma anche che la pandemia ci ha messo del suo per far sembrare ancora più lontani questi goals.

La crisi economica dovuta al lockdown, le scuole chiuse che hanno costretto i genitori a dover “scegliere” chi lasciare a casa coi figli, sacrificando spesso le mamme, e molti altri fattori legati all’emergenza sanitaria con cui facciamo i conti da ormai un anno e mezzo, hanno rappresentato un grosso passo indietro nel livello occupazionale femminile, tanto che, solo per fare l’esempio del nostro Paese, dei 101 mila posti di lavoro persi a dicembre del 2020, 99 mila erano occupati da donne.

Per la prima volta in Italia è stata redatta la Strategia Nazionale per la Parità di Genere, pubblicata dal Ministero per le Pari Opportunità nel luglio del 2021, della durata di cinque anni e legata al monitoraggio europeo dell’Istituto Europeo per la Parità di Genere (EIGE); gli obiettivi della Strategia si riferiscono a tutti gli indicatori che compongono l’indice europeo che misura la Gender Equality e che vedono il Paese in una situazione di disuguaglianza di genere, quali Lavoro, Reddito, Competenze, Tempo, Potere.

Questa è una vera e propria presa di coscienza sul fatto che la discriminazione di genere sia esistente in diversi ambiti della vita: nella salute, nell’istruzione, nella politica e, ovviamente, nel lavoro; soprattutto quest’ultimo punto, valutando le condizioni di accesso al mercato del lavoro, la carriera e la remunerazione lavorativa, ci dice che la strada per dare vera e piena indipendenza alle donne è ancora lunga.

I dati raccolti da un’indagine di Osservatorio JobPricing, in collaborazione con Spring Professional e IDEM | Mind The Gap, analizzando il mercato del lavoro italiano hanno evidenziato proprio come le donne siano state le più penalizzate dalla pandemia; questo, ovviamente, è avvenuto a livello globale, tanto che nei Paesi anglosassoni si è parlato di shecession (she-recession), chiarendo come la recessione abbia riguardato in particolare il comparto femminile.

Le cause dell’aumento del gender gap a livello lavorativo

La crisi sanitaria, e ovviamente quella conseguente economica ha inciso in primis sulle lavoratrici che svolgevano lavori precari e meno pagati; l’occupazione domestica non retribuita ha finito con il prevalere in molti casi sull’occupazione retribuita, con le donne che hanno lasciato il lavoro per occuparsi dei figli a casa e degli anziani.

Non bisogna inoltre tralasciare che il lavoro femminile è proporzionalmente radicato nei settori, quali quello sociale e sanitario, più esposti al virus, e quindi al contagio. In questo senso, l’Istituto Europeo per la Parità di Genere (EIGE) stima che le donne siano l’86% del personale di assistenza sanitaria, il 95% del personale domestico e il 93% del personale dedicato alla cura dei bambini e insegnamento.

Fonte: Osservatorio Job Pricing, rielaborazione Dati Global Gender Gap Report 2021, WEF.

A livello globale, va detto, le cose non migliorano: il World Economic Forum (WEF), che ha pubblicato anche quest’anno il Global Gender Gap Report, ha registrato un aumento del gap del 37%, con un una percentuale di chiusura del gap pari al 68%. Considerando che per parità di genere si intenda la parità raggiunta in vari ambiti sociali – istruzione, salute, partecipazione e opportunità economiche e partecipazione politica -, il WEF indica che essa sia quasi raggiunta solo nell’istruzione (95%) e nella salute (96%). Niente da fare, invece, per partecipazione economica e politica, che hanno, rispettivamente, il 58 e il 22%.

Secondo l’EIGE, in Italia la percentuale di chiusura del gap sul lavoro è del 63,3%, restando perciò uno degli ultimi Paesi del continente in tema di discriminazione di genere. Questa, punto per punto, la situazione nel nostro Paese.

1. Il gap nel livello di istruzione

In Italia, in realtà, se proprio si vuole parlare di gap a livello scolastico, allora questo è sbilanciato in sfavore degli uomini, essendo le donne più istruite della controparte maschile.  Nell’ultimo anno le laureate sono state il 58,7% del totale. Inoltre, secondo i dati ufficiali MIUR le ragazze abbandonano meno gli studi: nel 2017, ad esempio, c’era un 4.6% contro il 3% delle ragazze.

Le donne ottengono valutazioni migliori degli uomini (il 43% delle ragazze nel 2020 ha ottenuto un voto d’esame superiore o uguale a 9, rispetto al 31,7% dei ragazzi, dati AlmaLaurea), anche all’università (voto medio di laurea di 104 contro 102).

È una tendenza che, in realtà, va avanti da anni, tanto che, mentre la percentuale di donne con titoli inferiori alla laurea è andata progressivamente in diminuzione nel periodo 2004-2020, per gli uomini è stato esattamente il contrario.

2. Il gap nel mercato del lavoro

Prima della pandemia, l’occupazione femminile era al 50%, quella maschile al 68%; la disoccupazione si attestava a circa il 9% per gli uomini e 11% per le donne, l’inattività a 43,5% per le donne e 25% per gli uomini.

Nel 2020 molte donne hanno lasciato il lavoro o smesso di cercarlo, uscendo così dalla forza lavoro. Il tasso di inattività, che per entrambi ha subito un’impennata tornando ai livelli del post-crisi 2012, è aumentato di 1,83 punti per le donne, mentre quello degli uomini ha subito un aumento meno ripido, di 1,45 punti. L’occupazione femminile è scesa di più di 1 punto percentuale, per gli uomini invece la riduzione sta sotto il punto. Il gender gap è dunque evidente: le donne occupate sono di meno, trovano meno lavoro e fanno più fatica a essere parte della forza lavoro.

Va però detto che il gender gap è più ampio tra i lavoratori senza un titolo di studio universitario, mentre le donne occupate laureate sono più degli uomini. Il gap a sfavore delle donne, semmai, è presente tra le lavoratrici laureate sopra i 55 anni.
Rispetto alle donne che scelgono di non lavorare, secondo i dati sono soprattutto quelle non laureate a farlo, probabilmente anche in virtù della differenza salariale tra laureati e non. Anche in questo caso, però, non si può parlare di scelta del tutto libera: se una donna deve lavorare per spendere tutto il suo stipendio nella cura di casa e figli (ad esempio per asili nido o baby sitter), probabilmente non troverà conveniente lavorare, cosa che non accadrebbe se il suo stipendio fosse uguale a quello degli uomini.

Altra nota dolente riguarda le ore lavorate annue:  il tasso di part-time femminile, in costante crescita dal 2004, nel 2020 arriva quasi al 34%, contro circa il 9% degli uomini, altro motivo per cui il reddito è così diverso tra lavoratori e lavoratrici. Dobbiamo anche considerare che, spesso, la scelta del part-time non è volontaria, ma imposta dall’azienda per fronteggiare crisi, precarietà e ridurre le spese.

Ovviamente, nel caso in cui invece sia la lavoratrice a scegliere il lavoro part-time, il motivo è soprattutto legato alla cura della famiglia (figli o anziani): le donne italiane passano in media 5 ore al giorno a occuparsi del lavoro di cura, mentre gli uomini non arrivano a 2,5.

3. Il gap nei percorsi di carriera

Gli ostacoli per le donne nel raggiungere posizioni di vertice ci sono sempre e non sono pochi; si parla di segregazione verticale, quando ci si riferisce al fatto che le donne vengono relegate alle posizioni non dirigenziali, o di segregazione orizzontale, quando invece ci si riferisce al fenomeno della concentrazione femminile in alcuni settori o aree funzionali all’interno delle aziende.

La disparità più evidente è nel settore privato rispetto a tutto il mercato, producendo un paradosso incredibile tra numero di lavoratori/trici laureati/e e posti attinenti al titolo di studio occupati. Ciò non accade, ad esempio, tra impiegati e operai, con le donne che sono concentrate soprattutto nel primo ruolo e gli uomini nel secondo.

È chiaro che, nel mondo del lavoro, si risenta molto di alcuni retaggi passati, come quello secondo cui le donne non devono essere impiegate in ruoli di fatica.

Anche qualora venga affidato loro un ruolo dirigenziale nel privato, inoltre, è molto più facile che sia un ruolo non centrale per il core business: non è un caso se, secondo i dati dell’Osservatorio JobPricing, le funzioni dove sono più diffuse le donne manager sono Ambiente, Salute e Sicurezza, Auditing, Compliance, Risk management, Risorse Umane e Organizzazione, Marketing e Comunicazione.

Ci è voluta una legge, la 160/2019, per inserire le donne nei cosiddetti top job – amministratore delegato, presidente e membri dei CdA delle imprese quotate -, tanto che il 2020 è stato l’anno in cui la composizione dei CDA ha raggiunto il massimo di presenza femminile, con il 39%.

Eppure, analizzando i dati nel dettaglio, si scopre che solo il 2% degli amministratori delegati è donna, e solo nel 18% delle società il ruolo di presidente del CdA è ricoperto da una donna. Il glass ceiling, dunque, è più presente che mai.

4. Il gender pay gap

Inutile non sottolineare come anche la differenza salariale abbia il suo peso specifico nella valutazione del gender gap generale.

La prima discriminante riguarda settore pubblico o privato: il nostro Paese è uno di quelli con un pay gap orario più basso per quanto riguarda il settore pubblico (3,8%), mentre nel privato si posizione tra i più alti (17%).

L’Osservatorio JobPricing ha registrato per l’anno 2020, nel settore privato, un pay gap calcolato sulla RAL (retribuzione annuale lorda) in Full Time Equivalent (FTE) pari all’11,5%, che arriva al 12,8%considerando la RGA (retribuzioni globali annue). In altri termini, è come se le lavoratrici italiane avessero iniziato a percepire uno stipendio il 7 febbraio, lavorando regolarmente dal 1° gennaio.L’effetto della pandemia, come lo si è ritrovato nei livelli occupazionali, lo si ritrova anche nel differenziale salariale. Rispetto al 2019, il pay gap è cresciuto di 0,4 punti per la RAL e di 2,4 punti per la RGA.

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